L’anniversario del primo tentativo di colpo di stato organizzato da un presidente uscente nella storia americana è stato caratterizzato, negli Stati Uniti, da una seppur tardiva presa di coscienza da parte del successore, Joe Biden, che in un discorso accorato, il 6 gennaio, ha parlato senza mezzi termini di attacco alla democrazia e alla Costituzione.
Mentre scrivo mi rendo conto però che queste parole, usurate dalla disinvoltura con cui sono state adoperate in Italia negli ultimi trent’anni, rischiano di non comunicare più nulla del loro significato letterale. Altre, tuttavia, non ce ne sono. E forse, chissà, è anche per questo che nel nostro Paese il dibattito americano sull’attualità e lo stato di avanzamento di una nuova minaccia golpista è stato trattato con qualche ampiezza giusto in occasione della ricorrenza, e quasi sempre con il tono distaccato e un po’ didascalico di quando si parla di cose lontane.
Qui c’è forse un aspetto che meriterebbe di essere indagato, tanto da un punto di vista psicologico quanto da un punto di vista storico: il rapporto paradossale tra l’assenza del benché minimo tentativo di nascondere o dissimulare le proprie intenzioni, da parte di Donald Trump e da parte degli stessi assalitori di Capitol Hill, che anzi hanno provveduto essi stessi a fotografarsi e filmarsi in diretta, e l’incredibile sottovalutazione di quanto avvenuto, e di quanto sta tuttora avvenendo, da parte dei democratici (dei Democratici americani, con la maiuscola, e dei democratici di ogni altro paese occidentale, con la minuscola, e in qualche caso pure con la maiuscola).
Vedremo come si concluderà la vicenda sul piano legale, ma sul piano politico è come se lo stesso spudorato esibizionismo con cui l’ex presidente e i suoi seguaci hanno promosso l’eversione li avesse resi in qualche misura inafferrabili e ingiudicabili. In fondo, se Trump avesse pubblicamente negato qualunque intenzione di sovvertire l’esito del voto, e qualcuno avesse fatto arrivare alla stampa la registrazione di una riunione riservata in cui avesse detto la metà delle cose che ha detto in diretta tv, tutto sarebbe stato più semplice e più chiaro. Ma proprio il fatto che quelle cose le abbia invece dette e ripetute pubblicamente, per mesi, è come se avesse politicizzato la questione, e in qualche modo anche socializzato il crimine.
Lo stesso si può dire per gli uomini che hanno fisicamente assaltato il congresso, un assalto in cui sono morte cinque persone, in cui la folla ha sfondato porte e finestre gridando «impicchiamo il vicepresidente» (responsabile di non aver bloccato la proclamazione del risultato elettorale) e montato per l’occasione una vera e propria forca davanti al congresso.
Eppure, con tutto questo, sembrava arduo prendere sul serio un colpo di stato guidato da Jake lo Sciamano. Per essere onesti, raramente si sono visti golpisti più inverosimili. Ed era difficile non sorridere osservando i loro demenziali selfie dal luogo del delitto, le loro trionfali dirette Facebook dagli uffici devastati, e soprattutto il loro sincero stupore del giorno dopo, quando la polizia non ha dovuto fare altro che andarli a prendere a casa, uno per uno, avendo tutte le prove necessarie per arrestarli generosamente messe a disposizione dalle loro pagine social. Sembrava la summa di tutte le follie di questa strana epoca di imbarbarimento tecnologico.
E al tempo stesso sembrava di leggere le pagine scritte cento anni fa da Karl Kraus – “Gli ultimi giorni dell’umanità”, pubblicato nella sua versione definitiva nel 1922 – a proposito dell’impiccagione di Cesare Battisti.
«Perché non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa, e abbiamo fotografato non solo le esecuzioni, bensì anche gli spettatori, e addirittura i fotografi. E il particolare effetto della nostra mostruosità è che quella propaganda nemica che invece di mentire si è limitata a riprodurre le nostre verità non ha nemmeno avuto bisogno di fotografare i nostri misfatti perché, con sua grande sorpresa, ha trovato le nostre fotografie dei nostri fatti sul luogo stesso del delitto, dunque noi “al naturale”, in tutta la nostra ingenuità – ignari del fatto che nessun delitto potesse denudarci agli occhi del mondo quanto la nostra trionfante ammissione, come la fierezza del delinquente che si fa anche “riprendere” e sfodera un bel sorriso, perché è contento da matti di poter cogliere se stesso sul fatto. Perché non già il fatto che ha ammazzato, né che l’ha fotografato, bensì che ha fotografato anche se stesso, e che si è fotografato mentre fotografa, questo rende il suo tipo il ritratto imperituro della nostra cultura». Aveva proprio ragione Kraus: «Dopo il boia doveva venire anche il fotografo». E dopo il fotografo, il selfie.
Nell’America di un anno fa come cento anni prima, nell’Europa tra le due guerre mondiali, «personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». E dunque vale ancor di più, per il mondo di oggi, l’invito posto allora in premessa: «I contemporanei, i quali hanno permesso che le cose qui descritte accadessero, pospongano il diritto di ridere al dovere di piangere». E magari anche all’esigenza di fare qualcosa, possibilmente, perché tutto ciò non si ripeta ancora una volta.