È stata da poco depositata una importante sentenza della Corte Costituzionale sul cd. carcere duro (art. 41-bis) relativa – più nello specifico – alla sottoposizione a censura della corrispondenza del detenuto, senza esclusione di quella indirizzata ai difensori.
A dubitare della legittimità della disposizione era stata la Corte di Cassazione, secondo la quale la previsione generalizzata del visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis costituirebbe una irragionevole compressione tanto del loro diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, quanto di quello alla difesa e al giusto processo.
Nel ritenere la questione fondata – risparmieremo ai lettori i profili più tecnici – la Corte Costituzionale svolge alcune considerazioni sul ruolo del difensore che appaiono particolarmente importanti in un periodo – qual è quello attuale – nel quale è sempre più diffusa la cattiva abitudine di identificare l’avvocato con il crimine che viene contestato all’assistito.
I giudici della Consulta prendono le mosse osservando come, in termini generali, la sottoposizione a censura della corrispondenza di chi si trovi detenuto al 41-bis risponda a una precisa (e condivisibile) logica: quella di impedire che il detenuto possa continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza e possa, dunque, continuare a ricoprire un ruolo attivo all’interno di tale organizzazione impartendo o ricevendo ordini o istruzioni.
Se questa è la logica che si trova alla base di questa misura (come delle altre previste del regime del 41-bis), la Corte compie poi un passaggio ulteriore osservando come – sempre in astratto – tali ordini o istruzioni ben potrebbero essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore, il che porta alla conseguenza che – ancora sempre in astratto – sottoporre a censura le comunicazioni con i difensori potrebbe essere una misura funzionale a ridurre il rischio di comunicazioni verso l’esterno.
Se queste conclusioni non possono seriamente essere messe in dubbio, la Corte Costituzionale si chiede però se la sottoposizione a censura della comunicazione con i difensori – se letta alla luce delle altre misure che caratterizzano il regime penitenziario – appaia effettivamente idonea a raggiungere tale scopo.
Nel rispondere a tale domanda, si ricorda come il temuto passaggio di informazioni tra difensori e detenuti potrebbe, in realtà, già avvenire nell’ambito dei colloqui visivi o telefonici – i quali sono consentiti – rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo.
Se così stanno le cose – e a prescindere dagli altri profili tecnici di illegittimità della disposizione – la Corte si chiede che senso abbia continuare a imporre una misura così incisiva quale la sottoposizione a censura della corrispondenza (misura che può arrivare addirittura a impedire che talune comunicazioni giungano al proprio difensore).
Ed è qui che si innesta il passaggio della sentenza che merita di essere evidenziato.
Secondo la Corte la sottoposizione a censura della corrispondenza con i difensori «si fonda su una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso».
Si mette poi in evidenza un altro delicato aspetto relativo al diritto, del detenuto, di potersi tutelare da eventuali abusi della autorità: «Il ruolo del difensore, per essere davvero effettivo, richiede che chi si trova in stato di detenzione possa comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge che si siano, in ipotesi, ivi consumate».
Si diceva dell’importanza di una pronuncia che, soprattutto in un’epoca quale quella attuale, abbia ribadito la centralità del ruolo del difensore e l’impossibilità di identificarlo con i crimini che vengono contestati all’assistito.
Che si tratti di un tema realmente avvertito lo conferma, a strettissimo giro, la prima pagina del “Fatto Quotidiano” (guarda caso…), che così titola: «La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera».
Si tratta delle ennesime affermazioni disarmanti – alle quali, probabilmente, sarebbe ormai più opportuno non replicare – che sono l’esatto opposto di una corretta informazione e che non fanno altro che confermare una palese insofferenza verso il diritto di difesa e tutto ciò che si contrappone alla visione giustizialista e populista che le genera.