Lingotto addioL’inevitabile ritorno di D’Alema nel Pd e il tramonto del riformismo progressista

L’ingresso dei pochi esponenti (ed elettori) di Articolo Uno all’interno del Partito democratico segna la fine dell’ambizioso disegno di Walter Veltroni di unire i riformisti dell’area socialista, liberale e cattolica in un soggetto a vocazione maggioritaria

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Massimo D’Alema ha perfettamente ragione, è tempo che Articolo Uno si sciolga nel Partito democratico. Prima di tutto perché il suo partito è stato un fallimento, è rimasta una enclave di ceto politico ex diessino, e davanti alla prospettiva delle elezioni, forse già nella primavera prossima, non avrebbe scampo: di qui la necessità, almeno per alcuni suoi esponenti, di accasarsi nel Pd, e per tutti gli altri (a partire proprio dal lìder Maximo) di ritrovare un ruolo. 

Ma questo in fin dei conti non è poi molto importante: si tratta di vicende umane. È interessante invece l’aspetto politico, e qui sta la ragione di D’Alema. Che differenza c’è tra Bersani e Letta, tra D’Alema e Bettini, tra Speranza e Provenzano? Nessuna. E siccome il Pd di oggi è in sostanza guidato da quel centrosinistra interno che appunto va da Letta a Provenzano, ecco che i reduci di Articolo Uno trovano in quel Nazareno che abbandonarono durante la “malattia” renziana un appartamento certo molto più comodo del seminterrato di venti metri quadrati che è il partitino del ministro della Salute. 

Massimo D’Alema ha dunque ragione, e ora darà il suo modesto colpo di barra allo scafo pilotato da Enrico Letta nella direzione di un partito più tradizionalmente di sinistra, post-diessino (lasceremmo stare espressioni di ben altra portata quali comunista, socialista o socialdemocratico), su una linea più sensibile a Landini-L’Espresso-Gruber che ai riformisti interni, più sensibile a Tomaso Montanari che a Sabino Cassese, con una spruzzata di manettarismo del patriota Travaglio, un vago movimentismo ambientalista, una sorta di populismo democratico buono – le Agorà – e molto professionismo di ex quadri dei Ds, incomparabilmente più efficace e smaliziato di quello degli ex renziani rimasti nel Pd a far la guardia al bidone.

Questi ultimi sono indispettiti dal ritorno nel partito di uno come D’Alema che li ha insultati per anni e che continua a farlo definendo il renzismo una «malattia» (rimembranza leniniana dell’ex segretario del Partito democratico della sinistra), una volgarità a cui ha dovuto per forza rispondere Letta non meno di 24 ore dopo che lo aveva fatto Filippo Sensi, deputato democratico ex portavoce di Renzi e di Paolo Gentiloni. 

Gli ex renziani rimasti nel Pd (“Base riformista”) sostengono che non sarà certo l’ingresso di Speranza e compagni a dettare la linea del Pd. I newcomers sono effettivamente pochi. Ma la questione è un’altra: come mai a D’Alema quello che finora faceva schifo adesso piaciucchia? Non essendo cambiato lui (se non nel senso di un sempre crescente radicalizzazione del suo pensiero), è chiaro che a essere cambiato è il partito di Letta: e che questo spostamento a sinistra – diciamo così per brevità – sia avvenuto all’ombra di un ex democristiano aggiunge al tutto un pizzico di paradosso. 

Vedremo se ci sarà un qualche segno di vitalità degli ex renziani annidati nei ministeri e nei gruppi parlamentari: si sente perfino parlare di congresso. Quello che si può dire fin d’ora è che il vecchio disegno del Lingotto di Walter Veltroni, cioè l’idea di una nuova sintesi delle tre culture riformiste, quella socialista, quella liberal-democratica è quella cattolico democratica, già mai davvero inveratosi, sembra definitivamente saltato per aria. Si torna a casa. Ha vinto Massimo D’Alema, chapeau.

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