Negli ultimi tempi, i cartoni animati hanno preso l’abitudine a raccontarci che non è strettamente necessario avere un talento, che puoi benissimo farne a meno ritenendoti in ogni caso una persona valida.
Disney ci aveva già provato con Soul e lo conferma adesso con Encanto, meno riuscito da un punto di vista narrativo (l’ultima parte è un disastro, la sceneggiatura fa buchi da tutte le parti e la fretta di chiudere una storia che poteva avere un respiro più grande provoca non poca irritazione).
Ma c’è un altro tema importante in questo cartone coloratissimo, un tema sempreverde in tutte le storie di formazione: la famiglia. Un po’ Coco (ma non si toccano mai quelle vette poetiche e si piange solo in un’occasione, quando l’abuela racconta della morte dell’amato marito), un po’ Gli incredibili, anche in Encanto si celebra l’amore che passa di madre in figlia, da nonno a nipote.
Il guaio di questo tipo di racconti familistici è che la famiglia protagonista, in questo caso i Madrigal, si auto-celebra dipingendosi come la migliore del mondo (non lo dice mai ad alta voce perché è bravissima a ingannare con una falsa modestia), quella con più e più radicate tradizioni, quella che rispetto alle altre è speciale.
Mi spiego meglio: i Madrigal sono una famiglia che ha ricevuto un miracolo (e già questo…) quando il bellissimo nonno è morto lasciando sola la giovane sposa con tre neonati gemelli. Questo miracolo ha dato una casa alla matriarca, una casa magica con un’anima con finestrelle che salutano e piastrelle che esultano, e a ciascuno di loro un talento. I tre figli diretti sanno: una invocare temporali e altri fenomeni atmosferici, uno prevedere il futuro e l’altra cucinare pietanze in grado di curare chi sta male.
A loro volta, i tre gemelli hanno messo al mondo figli anche loro portatori sani di un talento, chi sa far nascere fiori dalle rocce e chi sente sussurri a chilometri di distanza. Solo una non è in grado di fare nulla, la protagonista Mirabel.
Il paese che circonda la grande e colorata casa dei Madrigal è toccato dal miracolo in quanto gli abitanti sono fruitori diretti di tutti quei talenti ed è questo a provocare un fastidio molto simile a quello che è in grado di suscitare il fascismo: noi siamo i Madrigal e voi nun siete un… Una prepotenza, insomma, che personalmente non mi ha mai fatto davvero tifare per questa famiglia che a un certo punto si ritrova a perdere la casa, la magia e quindi tutti quei talenti che fino a quel momento li ha fatti brillare.
In cuor mio ho pensato che un po’ se lo sono meritato, non puoi ritenerti migliore di altri, anzi addirittura necessario a una comunità che senza di te e i tuoi dolcetti cura raffreddore non saprebbe come sopravvivere.
Mirabel è l’unica a mettere in dubbio tutto, ma certo mai mette in dubbio la suprema potenza della famiglia, per la quale vive e per la quale morirebbe. Questa storia di appartenenza morbosa al proprio sangue è ambientata in una bellissima Colombia, piena di animali e di piante e pienissima, anzi stracolma, di canzoni, di cui un paio memorabili: la ballata romantica Dos Oruguitas e Non si nomina Bruno.
Bruno è lo zio visionario che diversi anni prima ha predetto che la casita e la famiglia sarebbero crollate per colpa di Mirabel, l’unica senza alcun talento. Spaventato dalle sue stesse visioni, Bruno ha deciso di allontanarsi dalla famiglia e nessuno lo vede più da anni.
Non è necessario in questa sede raccontare cosa succede, anche perché qualcuno vorrà pure prendersi il divertimento di scoprirlo da solo (ma rimarrà deluso dall’evoluzione delle vicende); a un certo punto la magia della famiglia svanisce, crolla, ed è compito di Mirabel riesumarla. Lo fa, in un modo molto semplice e umano: si sporca le mani e le fa sporcare ai suoi famigliari.
Il povero pueblo che vive intorno è chiamato ancora una volta a raccolta, sempre a testimonianza che i Madrigal quando vogliono qualcosa sanno reclutare le masse e, pure senza magia e senza più talenti, se la comandano: insomma, continuano a essere insopportabili. E alla fine, anche dopo una terza o quarta visione, nessuno capisce davvero qual è stato il senso di questo cartone dove si canta tantissimo, disegnato molto bene, e dove tre o quattro costumi di personaggi femminili sarebbero da ricopiare quest’estate.
Alla fine, insomma, questi talenti servono o non servono? I Madrigal, per problemi di sceneggiatura, non sanno spiegarlo davvero e noi, ormai assuefatti da anni di talent dove non sempre vince il migliore e dove giudici appena usciti dalla pubertà ti dicono che non vali niente, non sappiamo davvero a chi credere.