Il volume sui caratteri italiani della storia d’Italia Einaudi conta mille e sessantaquattro pagine, quindi ora non è che io mi metto qui e vi riassumo in cinquanta righe lo spettacolo di Gianni Morandi, che è la storia d’Italia.
Gianni Morandi è nato nel 1944, figlio d’un ciabattino di Monghidoro, un paesino fuori Bologna dove c’erano solo le elementari. Per continuare gli studi bisognava andare a Bologna, ma il padre diceva «Se vai a Bologna diventi delinquente».
È una delle cose che racconta a teatro, in uno spettacolo in cui racconta la sua vita. L’altra sera sono tornata a vederlo, due anni dopo. La domenica in cui l’avevo visto, due anni fa, Stefano Bonaccini vinceva le elezioni regionali, e le Sardine parevano qualcosa di cui tener conto. Poi le repliche sono state interrotte dalla pandemia, e sono riprese la settimana scorsa, a mondo cambiato e sardine scadute. Quando martedì un tizio dal fondo della platea ha urlato «Vogliamo te presidente», io mi sono chiesta come avevo fatto a non pensarci. Gianni, l’unica unità nazionale che abbiamo.
Con un tempismo che se lo metti in un film non ci crede nessuno, in quel momento Morandi si stava sedendo al pianoforte a suonare l’unico inno che questo povero paese abbia mai avuto: “Uno su mille”.
«Il passato non potrà tornare uguale mai: forse meglio, perché no, tu che ne sai. Non hai mai creduto in me, ma dovrai cambiare idea». Uno su mille è la “Born to Run” d’un paese di mitomani, e se vi sembra d’aver già sentito questa battuta è perché l’ho fatta un milione di volte, così come un milione di volte ho detto che la sua residenza bolognese al teatro Duse è uno Springsteen on Broadway a più alto tasso ormonale.
Martedì ci mancava poco gli lanciassero le mutande, le vecchie in platea. Lui faceva lo spiritoso, riferiva che Fiorello gli dice che da «eterno ragazzo» a «eterno riposo» è un attimo, diceva che se facesse un tour delle case di riposo farebbe il tuo esaurito. Intanto noialtre in platea squarciagolavamo «ciunga ciunga ciù ciunga ciunga ciù», e ci chiedevamo se, davvero, esistesse un’autorità morale superiore a quella di Gianni Morandi, una migliore guida per il paese.
Uno che imita Mogol con la precisione con cui Paolo Guzzanti imitava Pertini. Uno che quando fa le canzoni con gli acuti dice: «Quando arrivo a quella nota là, alla Al Bano, dico: ma ce la faccio?» – e intanto a Roma qualcuno «Al Bano» sulla scheda lo scrive: è un’evidente manovra di avvicinamento all’elezione di Gianni. Uno che – nel paese in cui tutti dicono di soffrire di sindrome dell’impostore soffrendo invece d’eccesso d’autostima – dice che di canzoni «ne ho incise seicento: son mica tutte belle». E poi si mette lì e sciorina le più brutte, ma le vecchie le cantano tutte, sanno pure quella che fa «se un somaro si mette un pigiama una zebra non è». Uno con le rughe un po’ feroci sugli zigomi. Uno che poi alla fine a Bologna ci andò, a cantare nel coro della maestra Scaglioni, ma solo il sabato e la domenica, ché durante la settimana il padre lo voleva a Monghidoro a imparare un mestiere, «quella roba lì dura mica».
Un Gianni Morandi dodicenne d’oggi si aprirebbe un TikTok sul quale lamentarsi del padre che non lo valorizza e non ne capisce il genio e si permette di pretendere che si alzi presto la mattina. Un Gianni Morandi che nascesse oggi non sopravviverebbe al primo calo di carriera, al primo Mogol che gli dice io ti scrivo una canzone ma non devi cantarla come cantavi tu, «se alla radio capiscono che sei Gianni Morandi siamo rovinati», sarebbe troppo impegnato a frignare per tirarsi su e poi raccontarci che sì, uno su mille ce la fa, ma quant’è dura la salita.
Un Gianni Morandi che nascesse oggi non sarebbe, tra settantasette anni, su un palco a raccontare ridendo che dal padre ha preso «certi smatafloni». Sugli smatafloni – che temo sia un bolognesismo, ma è praticamente onomatopeico e quindi non abbisogna di traduzione – un Morandi d’oggi scriverebbe memoir dolenti da andare a raccontare in talk-show con le luci basse. E invece, quella generazione lì, che tempra, che tenuta, che solidità.
Morandi cantava «Non ho barato né bluffato mai, e questa sera ho messo a nudo la mia anima: ho perso tutto, ma ho ritrovato me», e io pensavo a una signora che tempo fa mi chiedeva come mai noialtre pappemolli avessimo bisogno del bonus psicologo per essere state sul divano con Netflix, considerato che loro non ne avevano avuto bisogno dopo la seconda guerra mondiale.
Morandi tornava da Sanremo dove aveva provato la canzone con cui gareggerà la settimana prossima, veniva a Bologna a fare tre ore di concerto, ripartiva per andare a provare il duetto del venerdì sanremese, tornava per fare (stasera) un altro concerto bolognese, e poi il festival di Sanremo, e per la settimana dopo ha già fissato un altro spettacolo al Duse.
Morandi pur di non stare sul divano con Netflix si è buttato nel fuoco: che cos’è il suo ustionarsi dando fuoco alle sterpaglie se non una testimonianza del fatto che l’indolenza salta una generazione (o forse due)?
Mica lo so cos’aspettiamo a eleggere Gianni. Aveva ragione il tizio che urlava al Duse. Abbiamo diritto a un presidente che sorrida anche mentre suona la chitarra con una mano ustionata e ancora non del tutto rimarginata, abbiamo diritto a un presidente con un repertorio d’aneddoti su Lucio Dalla che gli lascia un alano in casa, sul bar di Monghidoro nel cui televisore vide Modugno, sulla madre che si rifiutava di ascoltare Volare perché esisteva solo Claudio Villa. Abbiamo diritto a un presidente che sia la storia d’Italia. «Tu non sai che peso ha questa musica leggera: ti ci innamori e vivi, ma ci puoi morire quando è sera».