Spesso il pubblico e gli amici mi chiedono quali elementi di musica e cultura persiana siano presenti nelle mie interpretazioni come pianista.
È una domanda molto difficile. Personalmente, amando molto le lingue, devo ammettere che nella musica di Bach trovo un modo di coniugare le melodie e articolare le frasi, che mi ricorda molto sia la lingua tedesca, che quella persiana.
Per chi non lo sapesse, la lingua persiana, essendo una lingua indoeuropea, deriva come l’indiano, l’inglese e appunto il tedesco dal sanscrito. Spesso, eseguendo Bach, mi sento come un archeologo o un linguista che ha il compito di trovare le affinità tra le varie sonorità musicali e linguistiche, come se stessi completando un puzzle, dandogli una “interpretazione”.
Interpretazione deriva dalla parola latina interpretari. Per me interpretazione è cercare di rendere manifesto il pensiero dell’Autore e comunicarlo al pubblico in modo intelligibile. Spesso ho un approccio molto spirituale, oserei direi quasi orientale. Per me non c’è molta differenza tra pregare e suonare o cantare Bach. In entrambi i casi, c’è un appagamento quasi religioso.
Nella musica, per esempio, di un sommo Maestro come Bach, un elemento che richiama la mia cultura natia è perdersi nell’infinito, quasi smarrirsi nel nulla per poi ritrovarsi in una dimensione atemporale e ageografica universale appartenente all’Umanità tutta, dove le varie voci dialogano, convivono nella pace e nella bellezza, ma prevale sempre l’ordine sul disordine, la bontà sulla malvagità. La luce sull’oscurità.
Ultimamente, registrando tutte le sonate per violino e cembalo di Bach con un caro amico, nonché grande violinista, sono incappato nel terzo movimento della Sonata in do minore Bwv 1017, uno degli adagi più belli in assoluto, e ho trovato una somiglianza sorprendente con Naghashe Chin (“Il pittore dalla Cina”), una canzone persiana, di cui ho già detto, eseguita dalla grande cantante Marzieh. La stessa profondità, lo stesso nobile fraseggio, la stessa cadenza regale.
Bach è la più grande prova musicale che le melodie, come del resto le lingue, sono state nel corso dei secoli un elemento fondamentale per l’unione tra le civiltà, e che la mera e vuota digitalizzazione attuale, che ci sta davvero rendendo sempre più disumani e in balìa delle nostre incertezze e paure, non sia la strada maestra. Abbiamo bisogno di nuove interpretazioni, che guardino alle civiltà antiche, abbiamo bisogno per rinascere di un nuovo “Umanesimo”, fondato su bellezza, comprensione e cultura con la C maiuscola.
Cultura non relegata allo streaming e ingabbiata in una virtualità profondamente malata come la nostra società. L’unica via di salvezza è amarci, amare la cultura e cantare insieme, suonando e facendo musica assieme per scoprirci di nuovo, la grande famiglia umana, simile all’impero achemenide che fu. «La musica è per l’anima quello che la ginnastica è per il corpo», ha detto Platone. «Dove le parole non arrivano… la musica parla», sosteneva Ludwig van Beethoven.
Nella musica di Bach personalmente trovo un frattale a colori che mi ricorda le nostre origini più remote, spesso la sua musica descrive i sentimenti di tutti i popoli e tutte le civiltà del presente, del passato e, a mio avviso, anche del futuro.
Mi avvicinai a Bach alla tenera età di 6 anni, ascoltando una sensazionale esecuzione di quello sciamano del piano che fu Glenn Gould della Toccata della Sesta partita in mi minore, che mi fece scoprire e ricordare la mia Persia, commuovendomi fino alle lacrime. Non ha ancora finito di stupirmi Bach, come del resto la meravigliosa arte e cultura del mio Iran, che spero possa ritornare un giorno a rappresentare quel centro di bellezza che oggi non c’è più.
da “Mille e una musica Breve storia della musica persiana”, di Ramin Bahrami, La Nave di Teseo +, 2021, pagine 128 euro 15