L’ora fra il cane e il lupoLa circolarità dell’esilio e la paura degli spazi stretti

In “Tre anelli” (Einaudi), lo scrittore e classicista americano Daniel Mendelsohn raccoglie storie di viandanti e studiosi, le cui vicende si riflettono, con rimandi, coincidenze e scarti impensati sui modelli epici della poesia greca

di Sabri Tuzcu, da Unsplash

Il mio interesse per i cerchi, gli anelli e le narrazioni inclusive come quelli studiati sia da Auerbach sia da Van Otterlo negli anni della guerra mi sconcerta – si dà il caso infatti che io abbia sempre avuto il terrore di qualunque luogo chiuso. Da bambino c’erano giochi a cui partecipavo malvolentieri perché eri costretto a nasconderti in spazi angusti: armadi, seminterrati, il tiepido anfratto dietro la caldaia in cantina che durante i nostri giochi era il posto preferito dei miei fratelli e cugini.

Ogni volta che dovevo rintanarmi in simili luoghi cominciavo a sudare copiosamente e respirare affannosamente, e sentivo tendersi i muscoli del collo: segnali, l’avrei scoperto in seguito, di un imminente attacco di panico. Sono claustrofobico.

Quando avevo dodici o tredici anni, nelle serate estive tutti i ragazzi del vicinato all’incirca miei coetanei facevano un gioco che chiamavamo «chiapparello», una versione di nascondino che si svolgeva nel raggio di tutte le dieci proprietà da cui era composto il nostro isolato, cinque case su un lato della strada e cinque sull’altro, coi relativi cortili anteriori e posteriori, e coinvolgeva tutti i ragazzini del vicinato che volevano partecipare.

Il gioco aveva inizio non appena la giornata volgeva al termine e gli ultimi bagliori diurni diventavano indistinguibili dal primo calar della sera – l’ora che i francesi definiscono, in modo affascinante e un po’ enigmatico, l’heure entre chien et loup, «l’ora fra il cane e il lupo». All’inizio del gioco, alcuni di noi – sempre lo stesso gruppo di una decina di ragazzi –, che venivano detti «cercati», avevano a disposizione un certo lasso di tempo per trovarsi un nascondiglio da quelli che li avrebbero stanati, ovvero i «cercatori».

I «cercati» si nascondevano in verande, ripostigli e aiuole, fabbricandosi ingegnose mimetizzazioni sull’esempio dei cacciatori nella vita reale, infrattandosi nella rigogliosa vegetazione che circondava le case della nostra zona oppure acquattandosi sotto le grandi ortensie annaffiate da tubi di gomma che serpeggiavano sui prati in ogni direzione, alcuni paralleli fra loro, altri avvolgendosi su se stessi e formando ampi cerchi; oppure, se erano particolarmente impavidi, i cercati si insinuavano fra i cipressi piumati che circondavano la proprietà della signora Isaacson in fondo alla strada. Quegli alberi erano stati piantati da suo marito quindici anni prima, quando tutte quelle case erano nuove; nel frattempo il signor Isaacson era morto, ma i cipressi erano cresciuti tanto da oscurare prima le finestre del pianoterra e poi quelle del piano superiore, così che la casa degli Isaacson aveva assunto un’aria furtiva, addirittura sinistra, come se la crescita degli alberi servisse a celare quel che accadeva dietro quelle finestre, di qualunque cosa si trattasse. Ma probabilmente non era altro che il dolore della vedova dai capelli scuri e di suo figlio, il cortese, alto Robbie, che ogni giorno nel tardo pomeriggio salutavamo imbarazzati quando portava a spasso il suo enorme pastore tedesco, Lady, che, a quanto diceva la gente, era mezza cane e mezza lupo.

Ricordo che a un certo punto, nei primi anni Settanta, un’ordinanza del Comune stabilì che i cipressi della signora Isaacson venissero tagliati perché ostruivano pericolosamente la vista agli automobilisti che svoltavano al fondo della nostra strada, ma lei fece causa al governo della contea e la costrinse a trapiantare i cipressi in un posto meno pericoloso, sostenendo che, dal momento che erano stati piantati dal suo defunto marito, costituivano un monumento commemorativo, e chi vorrebbe profanare un monumento commemorativo? Per questa ragione, da bambino associavo i cipressi alla morte, sebbene all’epoca ignorassi l’antica tradizione culturale che accosta quella specie arborea a funerali, tombe e cimiteri.

Tale associazione, insieme alla paura degli spazi chiusi, contribuiva alla mia profonda avversione per il gioco estivo del chiapparello. Spesso, quando venivo scelto per essere uno dei «cercati» – non ero mai un «cercatore» –, rientravo furtivamente in casa, sentendomi deliziosamente libero dalla responsabilità di trovarmi un nascondiglio. Ma non sempre si riesce a evitare di entrare in spazi angusti. Fin dall’infanzia provo un’ansia più o meno intensa quando sono obbligato a stare in ambienti ristretti: piccoli aeromobili, apparecchiature per la risonanza magnetica, ascensori.

Perciò è facile immaginare il mio orrore quando, al termine dei molti viaggi cui ho accennato in precedenza, le spedizioni investigative intraprese mentre scrivevo il libro sul destino dei miei parenti durante l’Olocausto, riuscii finalmente a localizzare il nascondiglio sotterraneo in cui due di quei parenti, il mio prozio e una delle sue quattro figlie, si erano rifugiati per un certo periodo di tempo, protetti da due vicini dopo che nell’estate del 1941 Bolechów era stata occupata dai tedeschi, ed era cominciato il periodo in cui, come aveva detto il sopravvissuto che avevo intervistato, i nazisti e i loro collaboratori locali davano la caccia agli ebrei come fossero animali.

Quando, nel luglio 2005, mi fu mostrato quel nascondiglio – un vano sotterraneo a due metri e mezzo di profondità cui si accedeva da una botola di un metro per due – mi sentii ovviamente obbligato a calarmici dentro, perché, pensai, era la cosa più simile a un monumento commemorativo che i miei due parenti avrebbero mai avuto, a differenza dei più fortunati parenti emigrati negli Stati Uniti dalla Polonia prima della guerra, che ora riposano tutti assieme in una grande necropoli di Brooklyn chiamata Cypress Hills.

Durante l’orribile minuto che passai là sotto, nel luogo dove mio zio e sua figlia erano stati nascosti, mi venne da chiedermi se anche la claustrofobia, al pari di altri disturbi d’ansia, abbia un’origine genetica, e se di conseguenza, nel corso dell’inconoscibile periodo di tempo in cui erano stati costretti a nascondersi, i miei due parenti avessero dovuto sopportare, in aggiunta agli altri terrori, anche la paura che io conoscevo così bene.

da “Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino”, di Daniel Mendelsohn (traduzione di Norman Gobetti), Einaudi, 2021, pagine 120, euro 16

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