The Great ResignationLa rivoluzione è lasciare quei lavori che si sostituiscono alla vita

In Italia, per pudicizia verso chi il posto non ce l’ha più ma non per sua scelta, emerge solo ora il racconto del desiderio di disimpegnarsi da attività professionali ormai indistinguibili dall’esistenza privata. Certo, è una scelta per privilegiati, ma, d’altronde, sono solo loro che possono cambiare le cose. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

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Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review, uscito a fine novembre e ancora in edicola a Milano e Roma, oltre che ordinabile qui.
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Ne usciremo dimessi. La scorsa estate, la seconda in pandemia, l’Atlantic ha scritto che gli americani, specialmente trentenni e quarantenni, stavano lasciando il lavoro.

Il titolo dell’articolo che ne parlava, “The Summer of Quitting”, da questa parte dell’oceano suonava fantastico, quasi erotico, diciamo fantaerotico, tanto era liberatorio e lontano, utopico, forse addirittura onirico. Alle spalle, l’America aveva una primavera di ripensamento, come l’avevamo tutti, in tutto il mondo occidentale: avevamo trascorso parte del lockdown a sentirci a pezzi ed esaminare i cocci, finendo con il dirci che dovevamo risistemare le nostre priorità. Più vita, meno lavoro.

Non propriamente una novità: la reazione (un po’ tardiva) dei millennial alla grande crisi economica del 2008 era stata proprio un rifiuto del lavoro come perno di tutto. Ogni tanto si leggono ancora le storie dei nati negli anni Ottanta che, dopo la laurea alla Bocconi e il master alla Columbia, hanno deciso di fare gli apicoltori. Quanto e se sono diverse, da questo, le attuali “great resignation” (definizione di Antony Klotz, professore di Management alla Mays Business School, Texas) sarà possibile valutarlo a pieno più avanti, quando la durata del fenomeno ci dirà molto della sua consistenza.

In Italia, fino a quest’estate, si era parlato di chi il lavoro lo aveva perso anziché di chi lo aveva lasciato, e non perché nessuno lo avesse fatto, ma perché interveniva il medesimo, pudicissimo senso di colpa che, nei primi mesi del lockdown, ha distrutto le amicizie di coloro che, essendone sprovvisti, continuavano indefessamente a parlare di stress, riunioni, beghe, colleghi, consegne eccetera eccetera ad amici e parenti che invece, magari, erano in cassa integrazione e passavano le giornate a fare puzzle e focacce, cercando di non impazzire.

A un certo punto, il solco tra chi lavorava e chi no è diventato una differenza insopportabile, una distanza di classe: in definitiva, una disuguaglianza. Per la prima volta, all’interno di relazioni consolidate tra persone che si credevano uguali e che di certo avevano le medesime opportunità, s’è creata una spaccatura di ordine economico e, in un secondo momento, socio-economico.

La vita affettiva di molti di noi è diventata come quella dei protagonisti dei romanzi di Sally Rooney, che sono sempre persone vicine e simili, ma irrimediabilmente separate.

Nel salotto degli aperitivi tra amici su Skype, cominciava a presenziare un gigantesco elefante, che era questo dubbio: si poteva o no parlare dell’ennesima angheria subita dal capo, si poteva o no dire quanto sarebbe stato bello andare in vacanza, ci si poteva o no sfogare per la millesima prova di maleducazione del proprio vicino di desk, era ancora lecito dare la buona notizia di un avanzamento di grado, e fare ciascuna di queste cose, o tutte, senza essere o risultare indelicati?

Evidentemente, no. Lo stesso pudore che, nei mesi peggiori del lockdown, quando i morti erano tantissimi e le sirene delle ambulanze suonavano continuamente, ci faceva chiedere se la comicità e l’umorismo fossero ancora leciti, se andassero ridimensionati, o addirittura sospesi, almeno dall’intrattenimento pubblico, ecco, quello stesso pudore imbrigliava gli incontri con i amici, impoverendoli moltissimo: scoprivamo che non parlare di lavoro riduceva le cose da dirci e scambiarci, scoprivamo che da dieci o venti o trent’anni, maledizione, più che di sesso, di ricette, di flirt, avevamo parlato, fuori dall’ufficio, di ufficio.

È evidente, allora, perché, in un quadro di compressione e tensione come questo, parlare di lasciare il lavoro era qualcosa di più che utopico, qualcosa che, fuori dal contesto italiano, ci sembrava fantastico, ma dentro casa nostra, del tutto fuori luogo, persino irritante – e a niente valevano i numeri, le inchieste, tutto quello che è emerso, sugli Stati Uniti, dalla gestione dell’emergenza sanitaria: il soft power americano, per chi è nato negli anni Ottanta, manterrà sempre in piedi un’ammirazione da subalterni nei confronti dell’America.

Naturalmente, non mancavano gli scettici: quel pezzo dell’Atlantic, per loro, raccontava niente di più che un trend per fighetti, un flirt estivo, nella migliore delle ipotesi un maggio francese. Una vampata di impegno (politico) per il disimpegno (esistenziale). Tuttavia, anche in Italia, una delle prime cose di cui s’è discusso, e che in America ha avuto quasi subito un effetto tangibile, è stata la smitizzazione del lavoro: tutt’ora, tra le molte retoriche del ripensamento valoriale che è stato sulla bocca di tutti durante la reclusione, è quella che meglio resiste (forse, è l’unica). Ed è in quella smitizzazione il primo tarlo delle grandi dimissioni.

Ad aprile scorso, il New York Times ha raccolto le testimonianze di molte persone che si sentivano affette dalla sindrome di burnout e si dicevano spente, anedoniche: erano gli effetti dello smartworking. Di impressionante, in quelle testimonianze, c’era questo: la disaffezione verso il lavoro coincideva con la disaffezione verso la vita. Dopotutto, perché stupirsi: a quella coincidenza ha lavorato la Silicon Valley e il tempo che l’ha fatta esistere, il nostro tempo.

Gli operai del boom degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli che raccontarono Gaber, Jannacci, Pagliarani, Simonetta, avevano bene in mente la differenza tra vita e lavoro: al padrone non importava nulla di ammansirla e fluidificarla. A nessuno importava il loro sacrificio, a nessuno veniva in mente di mascherarne l’alienazione. Dal canto loro, gli operai erano più che lucidi. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è /scampo da noi nella vita», scrive Elio Pagliarani ne “La ragazza Carla” – è il 1962.

Le lotte del movimento operaio partirono da qui, da questa lucida ricognizione. In quegli anni, quindi, lottare per la democrazia significava lottare per migliorare le condizioni dei lavoratori, per assicurare alla classe operaia una mobilità sociale, infine per migliorare la vita privata di tutti. Allora si puntava a lavorare meglio e vivere meglio. Cinquant’anni dopo, la quarta rivoluzione industriale abbatte la differenza tra vita e lavoro, le aziende competono per diventare “best place to work” e lo fanno trasformandosi in parco giochi, appartamenti confortevoli dove il lavoratore stia meglio che a casa propria, tanto da sviluppare una sorta di dipendenza dal posto di lavoro – che va a unirsi alla dipendenza dal lavoro, ovverosia dalla competizione e dalla performance. È da tutto questo che il Covid ha indotto e sta inducendo le persone a licenziarsi: il millennial che diceva addio alla carriera di avvocato dieci anni fa, lo faceva perché non accettava le condizioni d’ingresso nel mondo del lavoro (o perché nemmeno ci entrava); lo studente che lottava per e con gli operai negli anni Settanta lo faceva affinché il lavoro diventasse uno strumento di emancipazione dalla schiavitù e non una schiavitù indorata.

Il dimissionario post Covid, ultimamente assai presente anche in Italia, va assai oltre, la sua è sia una retromarcia che un salto in avanti.

L’Atlantic scriveva che questo nuovo movimento segnalava un moto d’ottimismo tra le persone: se ti licenzi, significa che hai fiducia nel fatto che troverai di meglio. Quel meglio si intuisce leggendo le motivazioni di chi, in questi mesi, ha lasciato il lavoro – anche in Italia e sempre di più, e i post sui social che lo annunciano stanno diventando un genere letterario, se non appetitoso, di certo più interessante dei diari dal confino che nei mesi del lockdown hanno affollato i feed di tutti.

Quel meglio non ha per forza a che fare con un miglior posto di lavoro, ma prima di tutto con la disintossicazione personale dal lavoro: si interviene sul mercato cambiando la propria disposizione ad assecondarlo. È per questo che molti dimissionari hanno lasciato senza un’alternativa in tasca, dicendosi: nei prossimi mesi vivo con i miei risparmi, poi si vedrà – sì, è una cosa che ci si può permettere solo nelle alte sfere, ma in quale rivoluzione non è stato così, in fondo?

Vogliamo salvare la democrazia? Benissimo. Allora, chi sente di doverlo fare e se lo può permettere, si licenzi. Non c’è modo migliore di arginare la presa del mercato sulle nostre vite e, collateralmente, di portarlo a correggersi, commisurandosi su ciascuno di noi. È una forma di sciopero solidale, la più solidale e meno invasiva di tutte.

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