La mancanza di generosità: è questo che colpisce in questa strana vicenda dell’elezione del Capo dello Stato. È un momento che, al netto delle legittime aspirazioni di ciascuno, richiederebbe un minimo di – non ci viene un altra parola – generosità.
Quel qualcosa che nei momenti difficili dovrebbe essere nell’animo dei protagonisti, come è sempre stato nelle fasi drammatiche della vita del Paese, perché sempre a un certo punto i partiti hanno saputo guardarsi in faccia e deporre le armi. E invece non c’è generosità perché nessuno si muove, aspettando la mossa dell’altro per farla a brandelli e tuttavia prima che la casa bruci quel momento unitario sarà oggi, a detta di tutti. A meno che non si voglia davvero infliggere un altro durissimo colpo alla credibilità del sistema.
Ma come si risolve questo film dell’orrore? Ieri sera, per riprendere il filo rosso del discorso sulla generosità, prevalevano ancora gli egoismi, le furbizie, le bugie, peggio che su un ballatoio di un caseggiato malfamato, un clima di tutti contro tutti, di bocciature incrociate, sgambetti e ripicche.
Ne sono tutti responsabili ma c’è uno che è più responsabile di tutti: Matteo Salvini, l’uomo che si è autoassegnato il ruolo di Gianni Rivera pur essendo molto al di sotto della bisogna, promettendo e smentendo in un colpo solo, diventando oggetto degli strali di tre quarti del Parlamento – fino alla diagnosi di pazzia – e marcatamente da parte di quella destra di cui si è impancato a leader.
Anche il degente Silvio Berlusconi se n’è accorto, per esempio contraddicendolo quando il capo leghista era parso sul punto di rimettere in pista Mario Draghi e il povero Antonio Tajani è dovuto andare a Palazzo Chigi per spiegare al presidente del Consiglio che «la linea di Forza Italia non è cambiata, lei deve restare a Palazzo Chigi».
Dopodiché Salvini è tornato su Franco Frattini, già affondato lunedì da Enrico Letta e Matteo Renzi congiuntamente (chi se l’immaginava una sintonia così forte tra due leader che certo non si amano), e ri-bocciato in serata dal Partito democratico, a dimostrazione che sembra di essere in un infinito girotondo che sta estenuando in primo luogo le centinaia di parlamentari che non hanno il benché minimo ruolo, non sanno niente di niente e attendono disposizioni dai generali che però si ingarbugliano tra loro e abbattono sistematicamente qualunque figura si stagli all’orizzonte come i cecchini nelle guerre civili: e in questo Full metal jacket recitato a Montecitorio ci hanno lasciato le penne personaggi illustri, nomi come Sabino Cassese o Elisabetta Belloni (che resta in campo per Palazzo Chigi nel caso Mario Draghi dovesse traslocare al Colle), dopo che quest’ultima era parsa poter far quadrare il cerchio con il sì di Salvini, Meloni e Letta ma bloccata da pezzi importanti del Pd, Renzi e Forza Italia a causa della sua attuale collocazione alla guida dei servizi segreti (e il nome di Yuri Andropov, il segretario del Pcus appunto capo del Kgb è stato fatto ironicamente da molti).
In tutto questo non si capisce bene cosa pensi il Movimento 5 stelle, che ormai sono tre o quattro M5s, un gruppone di sbandati come quelli dei romanzi di Beppe Fenoglio, con un capo, l’avvocato Giuseppe Conte, che occhieggia a Salvini e di cui il Pd con qualche anno di ritardo comincia a diffidare ma che Letta non intende perdere per non restare completamente solo: e però quando questa vicenda sarà chiusa è difficile che non intervenga un chiarimento tra i due perni di un campo largo tutto da costruire.
Oggi dunque è il giorno della verità per uscire dalle «nebbie» (Bersani dixit). C’è sempre Draghi in campo, ma che verrebbe eletto più per disperazione che per convinzione, con inevitabile ammaccamento della propria immagine, ammesso e non concesso che superi agevolmente i 505 voti necessari. Così come c’è, almeno in teoria, Sergio Mattarella, che ieri è cresciuto ancora fino a 165 voti, un segnale netto che molti parlamentari ritengono che a questo punto l’alternativa vera sia tra il Presidente e il caos. E forse hanno ragione.