Il lungo viaggio verso la notte potrebbe portare qualcosa di nuovo, ma come ha detto Enrico Letta ieri sera «è tutto per aria, e non per colpa nostra». Ma lo stesso Letta ha assicurato che venerdì, alla quinta votazione, sarà il giorno buono (oggi ancora bianca). Potrebbe essere il gran giorno di Pier Ferdinando Casini, ma ci sono ancora molte ore prima dell’esito, vertici da fare, accordi da stipulare. Saranno ore molto lunghe.
Nella omonima commedia di Eugene O’Neill le cose finiscono male e non vorremmo che la cosa accadesse anche in questa strana realtà della partita per il Quirinale. Già, perché in questo viaggio verso la notte condotto da quattro o cinque uomini politici in un Parlamento stordito dalle chiacchiere e dai pettegolezzi, dalle affermazioni e dalle smentite, nulla è sicuro dopo il fallimento anche della terza votazione, ancora una “vittoria” delle schede bianche con una vistosa performance di Sergio Mattarella a indicare forse una sorta di “fate presto”, per il Pd e – diciamola tutta – per tutti i parlamentari sarebbe la soluzione ottimale.
Inutile addentrarsi nel ginepraio dei veti e degli sgambetti, delle lusinghe e delle bugie. Lasciando perdere i dettagli, la sostanza sembra essere riassumibile in alcuni dati. A cominciare dalla condotta completamente ondivaga di Matteo Salvini, l’uomo che per una serie di circostanze anche fortunose si trova con il boccino in mano, un Salvini talmente camaleontico da passare da Silvio Berlusconi a Sabino Cassese (ma forse è un depistaggio la notizia data dal Foglio).
Il capo della Lega è scrutato da tutto il mondo politico e dagli osservatori, anche internazionali, per capire quale dei “due Salvini” prevarrà: se quello “melonizzato”, tentato dalla spallata (l’operazione che porterebbe al voto Elisabetta Casellati, con probabilissima ricaduta negativa sul governo Draghi che egli invece vuole tenere in sella), o quello dialogante, che parla con Letta e Renzi, un momento mette il veto su Pierferdinando Casini e un momento no.
È un Salvini bifronte, quello che rischia di restare intrappolato nelle sue stesse macchinazioni, di fare confusione, di non portare a casa niente, addirittura di fare un regalo a un Pd costretto a tappare le falle e accettare la “riduzione del danno” ma sostanzialmente privo di proposte.
Il Pd ha trascorso una giornata nervosissima nel tentativo appunto di decifrare quello che vuole fare la destra inevitabilmente al centro del ring. E non basta, perché Enrico Letta deve ormai sospettare apertamente delle mosse dell’ex “punto di riferimento fortissimo”, quel Giuseppe Conte che da due giorni lancia segnali poco chiari a Salvini e che comunque continua a dire no a tutti. Ed è chiaro che uno dei lividi che resterà dopo questa vicenda quirinalizia sarà senz’altro sul corpo della alleanza strategica Pd-M5s, un’alleanza che il leader del Nazareno non intende spezzare anche perché si troverebbe isolato col suo striminzito 12% di parlamentari ma che ormai odora di sospettosità da tutte le parti.
Invece sì è notata un ripresa evidente di rapporti tra Letta e Renzi, persino Peppe Provenzano ci ha detto che non si può considerare Renzi nel centrodestra: i due leader insieme due giorni fa hanno silurato Franco Frattini e ieri molto drammatizzato l’eventuale scesa in campo della Casellati.
In questo quadro in divenire il più forte in campo è dunque Casini, che avrebbe l’appoggio di Silvio Berlusconi, del grande Centro (è il candidato di Matteo Renzi) e che il Pd accetterebbe di ottimo grado. Mentre le possibilità di Mario Draghi si infrangono contro i no di Salvini e Conte. E di pezzi importanti del Pd. Letta spera che tutto finisca bene, come nelle favole, se venerdì si chiude con Casini tirerà un centinaio di sospiri di sollievo per lo scampato pericolo di subire un Capo dello Stato di destra. Che non sarebbe esattamente una medaglia da appuntarsi sul petto.