Strano ma vero Un calice di vino rosso della Champagne?

Se non vi sognereste mai di ordinarlo, è perché ancora non conoscete il lato meno noto della celebre regione francese che è apprezzata per le bollicine ma che sa anche fare bene anche molto altro

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La Champagne ha conquistato il mondo con il suo celebratissimo spumante. I numeri sono impressionanti: oltre 27 milioni di bottiglie vendute in un solo anno in Gran Bretagna, più di 25 milioni negli Usa, 14 milioni in Giappone, 8,4 milioni in Italia, ma anche un milione destinato a rifornire navi e aerei. E poi dati ancora più sorprendenti: 350mila bottiglie vendute in Costa d’Avorio, 1,3 milioni in Messico e altrettante a Singapore, fino agli insospettabili 1,8 milioni annui degli Emirati Arabi Uniti o al mezzo milione di bottiglie spedito in Qatar![1]

È così che, con le sole esportazioni, lo champagne genera un giro d’affari stimato in 2,6 miliardi di euro l’anno. Un risultato che può sembrare incredibile, se si pensa che questa regione si trova talmente a nord da rendere difficoltosa una piena maturazione dell’uva.

Questo trionfo è stato reso possibile da una sorta di prestidigitazione: aver intuito, trecento anni or sono, che la produzione di vini spumanti – adatta a un ambiente fresco – poteva trasformare gli storici problemi di un clima inclemente in un asso nella manica.

Tuttavia la Champagne non è sempre stata una fucina di vini dorati effervescenti. Se è vero che vi si coltiva la vite da quasi due millenni, è altrettanto vero che fino a metà Ottocento quest’area della Francia settentrionale produceva soprattutto vini rossi, come tante altre regioni, quale ad esempio la vicina Borgogna. Del resto qui sono da sempre le uve nere, prime tra tutte il celebre pinot noir, a fare la parte del leone.

Nell’ultimo secolo e mezzo il trionfo della spumantistica ha però spazzato via la concorrenza dei vini fermi. Questi ultimi si sono limitati a sopravvivere, sotto forma di reliquia, in una denominazione d’origine controllata (appellation d’origine contrôlée – AOC) che sulla carta ricopre lo stesso vastissimo territorio in cui si possono produrre spumanti, ma che nei fatti partorisce appena qualche decina di migliaia di bottiglie l’anno, a fronte degli oltre 300 milioni di metodo champenois.

Dopo aver cambiato più volte nome, dal 1974 questa AOC si chiama Coteaux-Champenois – traducibile in “Colli della Champagne” – e consente di produrre, con le stesse uve dello spumante, vini fermi rossi, bianchi o rosati.

Quando alcuni anni fa indagai per la prima volta in modo minuzioso questa tipologia, gli stessi vignaioli che visitai si dimostravano circospetti sul suo interesse e sulle sue potenzialità. Quasi non ci credessero. Eppure avevano scelto di riservare una parte (minima) dei loro vigneti ai vini fermi, perlopiù rossi. Come mai allora tutto questo scetticismo? È facile da spiegare.
Produrre un buon vino tranquillo in Champagne è più difficile e meno redditizio. Non gode della stessa notorietà di uno champagne, cui basta il nome per proporsi con successo sul mercato. Richiede terroir di grande valore e più lavoro in vigna, per ottenere uve di qualità superiore. La moltitudine di operazioni enologiche della spumantizzazione consente infatti di trasfigurare in cantina mosti di livello anche modesto. E dato che lo spumante si basa sulla leggerezza e sull’acidità, si possono utilizzare uve più diluite, provenienti da rese maggiori. Quindi di produrre di più. In pratica quasi solo vantaggi.
Perché allora un vignaiolo dovrebbe sacrificare tempo, energie e quantitativi per ottenere un vino meno quotato, meno abbondante, e che non potrà vendere a un prezzo più alto? La risposta è una sola: per tradizione, passione e orgoglio.

Quanto al cliente, perché mai dovrebbe a sua volta comprare questi vini piuttosto costosi? Per curiosità, certo. Per cultura enologica, indubbiamente. Ma anche perché i migliori coteaux-champenois sono di stimolante originalità gustativa. Si tratta di vini leggiadri, molto fini, espressivi ed eleganti. Sono bottiglie che testimoniano un’insolita levità gustativa, senza tuttavia sacrificare sul suo altare carattere e personalità. Sono anche vini dotati, grazie a queste virtù, di un’eccellente bevibilità. In tempi in cui è sempre più facile imbattersi in “vinoni” da 14 o 15 gradi alcolici, non sempre molto digeribili, questo è un indubbio pregio. Infine, i buoni coteaux-champenois ci riconciliano con l’idea stessa che la leggerezza sia una virtù.

La rinascita dei Coteaux-champenois

A una manciata di anni dai miei primi sopralluoghi e indagini si constata un cambio di rotta. I vignaioli che producevano coteaux-champenois all’epoca hanno saldamente confermato quella scelta. Quelli che nicchiavano o sostenevano si trattasse di eventi episodici o isolati, forse destinati a non ripetersi, hanno rinnovato gli esperimenti. Diversi altri che non producevano vini fermi hanno iniziato ad avventurarsi su questo terreno, incluse alcune grandi maisons che non lo facevano.
Che cosa è successo? Probabilmente un effetto di moda, come spesso accade nel mondo del vino. Ma anche una crescente attenzione per i vini di territorio, che i coteaux-champenois incarnano meglio del sofisticato champagne, spesso percepito come una lussuosa bevanda alcolica, più che come un vino a pieno titolo. Infine il riflesso del surriscaldamento climatico, che sta rendendo sempre più agevole ottenere uve mature anche nelle regioni nordiche.

Qualche produttore distintivo

Districarsi nel dedalo dei produttori di coteaux-champenois non è facile. In genere l’aura di cui gode lo champagne mette in ombra, nei cataloghi aziendali, i vini fermi. Inoltre i quantitativi prodotti sono così ridotti da rendere scarsamente disponibili le bottiglie (i piccoli vignaioli producono spesso non più di due o tre botti di coteaux-champenois l’anno, e solo nelle annate favorevoli), ardue anche da reperire in enoteche o ristoranti.

Eccovi dunque una serie di suggerimenti tra i quali provare a scovare il vino che fa per voi. Buona fortuna!

Tra le grandi maisons solo Bollinger e Drappier vantano una tradizione duratura di vini fermi. La prima produce da anni la cosiddetta “Côte aux Enfants”, un rosso concentrato e costoso (attorno a 120 €), da una singola vigna di Aÿ. Drappier invece propone da tempo sia un rosso (oggi denominato “Permission”) sia un bianco (“Perpétuité”) schietti, eleganti e molto rappresentativi, a un prezzo abbordabile. Da poco si è aggiunta la singolare etichetta “Trop m’en faut”, prodotta con solo pinot grigio – caso più unico che raro.

Tra le celebri maisons che si sono cimentate di recente vanno citate Charles Heidsieck e la pionieristica Louis Roederer, quest’ultima tra le case più dinamiche e visionarie.

Il panorama dei piccoli vignaioli (récoltants) è più diversificato.

Tra di essi si staglia la figura di Francis Égly (Domaine Égly-Ouriet), che con il suo ambonnay rouge “Cuvée des Grands Côtés” (prima annata 1995) si è imposto come riferimento qualitativo dei grandi rossi di stile e ambizione borgognoni. È un pinot nero sontuoso, ricco, strutturato, levigato (e assai costoso – spesso oltre 200 €!), da lasciare invecchiare pazientemente in cantina. Le annate 2018 e 2019, attualmente in circolazione, non andrebbero stappate prima del 2025/2030.

All’altra estremità geografica della regione, Olivier Horiot incarna un’eccezione nell’eccezione: quando rilevò la guida della tenuta di famiglia ai Riceys decise di produrre… solo vini fermi! Lo champagne arrivò in un secondo tempo. Sia il coteaux-champenois rosso sia il bianco sono deliziosi, teneri, eleganti, delicati. Ma questo paese dell’Aube è anche l’unico di tutta la Champagne a poter vantare una terza denominazione d’origine: Rosé des Riceys, dedicata ai soli rosati fermi. Quelli di Horiot sono sapidi, golosi, longevi e dotati di grande finezza.

Non lontano dai Riceys, a Courteron, la maison a dimensione famigliare Fleury – pioniera della biodinamica in Champagne – ha recentemente messo a frutto nel campo dei vini tranquilli il proprio lungo savoir-faire spumantistico. Il suo coteaux rosso 2018 è aromaticamente puro, squillante, speziato; in bocca acidità e leggerezza sono compensate da un tannino gagliardo. Ma quest’azienda produce anche un coteaux-champenois bianco 100% pinot blanc e un rarissimo rosé da pinot nero.

Tornando a nord, tra Montagne de Reims e Vallée de la Marne, alcuni altri vignerons meritano senz’altro una segnalazione.

I fratelli Raphaël e Vincent Bérêche confezionano due coteaux-champenois, uno per colore, espressivamente incostanti ma di sicuro interesse: un rosso (800 bottiglie l’anno) ficcante e tannico, prodotto da vigne di Ormes, nella Petite Montagne, e un bianco fatto a Ludes, ancora più raro. Entrambi risentono del rovere. David Léclapart di Trépail, uno dei portabandiera della biodinamica in Champagne, ha iniziato nel 2013 a produrre un coteaux-champenois bianco aggraziato e soave, segnato dal legno. Ma è il suo verace trépail rouge, tutto pinot nero, che fin dal 1999 illustra il potenziale di questo territorio e di questo vignaiolo per il vino fermo.

Nella Vallée de la Marne, i fratelli Mélanie e Benoît Tarlant hanno còlto l’occasione di un’annata generosa come la 2019 per sperimentare la produzione di un vino fermo ottenuto da vecchie viti di pinot nero piantato nel 1946 e vinificato in bianco interamente in barrique. Il rovere lascia un segno aromatico inequivocabile nel bouquet del vino, che rivela un simpatico profilo guizzante e spigliato, con un corpo sottile e nervoso. Una bottiglia che restituisce appieno l’espressività tipica della Champagne.

Nel medesimo areale la casa Dehours & Fils fa insolitamente leva sul vitigno pinot meunier per produrre sia un coteaux rosso sia uno bianco di pregevole carattere. Il rosso “Troissy – La Croix Joly” ha bisogno di qualche anno per fondere il legno e la struttura tannica. L’edizione 2018 (appena 567 bottiglie!) ha grana tannica ancora burbera e aroma tostato: aspettatelo qualche anno.

Chiudiamo la nostra carrellata con tre vignaioli della Valle della Marna.

Franck Pascal confeziona sulla riva destra della vallée due coteaux-champenois, entrambi denominati “Confiance”. Il rosso 2018 è un ottimo esempio di sapidità e rilassatezza, condotte sul fino dell’eleganza e della spontaneità espressiva. Anche il bianco, frutto dell’assemblaggio di ben quattro annate diverse, è convincente. Si configura come un vino facile ma elegante, di beva godibilissima, fragrante e gustosa.

Bourgeois-Diaz produce un rosso “BD’LP” (meunier 80%, pinot nero 20%) più robusto e corpulento, a tratti ruvido e selvaggio, dalla bocca solida e saporita.

Jérôme Lefèvre ha da pochissimo fondato la sua piccola cantina personale a Essômes-sur-Marne. Tra i suoi progetti, un coteaux-champenois da meunier e pinot nero vinificati in bianco in barrique. Il colore dorato scuro, quasi ramato, prelude a una dolcezza di rovere evidente ma ben gestita, che incontra un frutto croccante e molto libero. Vino teso e fragrante, per gli amanti dello stile “nature”.

Due indicazioni pratiche, per finire. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, i vini fermi della Champagne non vanno bevuti giovani: sono spesso troppo crudi e spigolosi, talora aspri. Fateli invecchiare alcuni anni.

In secondo luogo, la temperatura di servizio dei rossi, da non mescere mai alla cosiddetta “temperatura ambiente”, bensì a 14-15 °C. •

[1]    Dati CIVC riferiti al periodo pre-Covid (anno 2019). I dati 2020 della pandemia sono ovviamente più bassi, ma già in robusta risalita nel 2021.

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