Nuovo imperialismoFinché l’Ucraina resterà un Paese anti-Russia la guerra sarà inevitabile, dice il leader dei separatisti

Aleksandr Borodaj, oggi deputato della Duma e capo dell’Unione dei volontari del Donbass, è stato il primo leader della Repubblica di Donetsk. «Molti sono pronti a tornare a combattere», dice. «Abbiamo iniziato la mobilitazione. La guerra si farà. Prima o poi»

(AP Photo/Alexei Alexandrov)

Aleksandr Borodaj, oggi deputato della Duma (la Camera bassa del Parlamento) e capo dell’Udv, l’Unione dei volontari del Donbass, è stato il primo leader della Repubblica di Donetsk e, di fatto, lo «stratega» dell’annessione russa della Crimea e dell’autoproclamata indipendenza del Donbass.

«Non posso dire quando e in quanti partiremo, darei informazioni ai nostri nemici», aveva detto in un lungo colloquio con Repubblica prima della decisione di Putin di riconoscere la sovranità delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk anche sui territori controllati da Kiev. Borodaj ammetteva di aver «preso ordini» da russi interessati alla «riunificazione del Donbass con Mosca». Aggiungendo poi: «La diplomazia può solo procrastinarla, ma finché l’Ucraina sarà un Paese anti-Russia, la guerra sarà inevitabile».

E le sue parole acquistano nuove sfumature dopo le ultime ore. Il presidente russo Vladimir Putin, dopo aver riconosciuto l’indipendenza dei separatisti del Donbass, ha ordinato al suo esercito di entrare nelle Repubbliche filorusse di Lugansk e di Donetsk «per il mantenimento della pace». Per la Casa Bianca il dispiegamento è «l’inizio di un’invasione», mentre Kiev accusa il Cremlino di voler risuscitare l’Urss. E Putin, in risposta, sostiene che l’Ucraina non esiste e che è solo una parte della Russia.

Borodaj, che si definisce «imperialista russo», è convinto come Putin che «il popolo russo sia stato diviso in maniera artificiale dopo la perdita della guerra fredda». E spiega: «Credo che il popolo russo si debba riunificare e vivere in uno stesso Paese che comprenda i territori che appartenevano originariamente alla Russia. Non parlo della Polonia, della Finlandia o dei Baltici. Non rivendichiamo quei territori. Parlo dell’Ucraina orientale». Ovvero le terre a Nord del Mar Nero conquistate dall’impero zarista alla fine del XVIII secolo a cui, ha ricordato lunedì Putin, fu dato il nome di “Novorossija”, Nuova Russia.

Quando nel febbraio 2014 la rivolta di Majdan a Kiev depone il presidente filorusso Viktor Janukovich, vola in Crimea e diventa assistente di Serghej Aksionov che ha preso il potere come premier della Repubblica autonoma di Crimea. Poi si sposta nel Donbass dopo la proclamazione unilaterale dell’indipendenza e il referendum sull’annessione russa della Crimea di cui è di fatto il regista. «Andare nel Donbass era il passo successivo più naturale. Arrivavano da ogni parte volontari pronti a combattere per liberarlo. Non volevano restare in Ucraina, sotto il nuovo governo comparso in seguito al colpo di Stato». Chiama così la Rivolta di Majdan. I ribelli occupano gli edifici governativi di Donetsk e Lugansk: è l’inizio del conflitto con le forze ucraine in corso da otto anni.

Dopo l’autoproclamazione dell’indipendenza, entra a Donetsk in vista del referendum “insieme a un gruppo di subordinati”. E quando Donetsk autoproclama l’indipendenza, ne diventa il premier. «Con una mano costruivo il nuovo Stato, con l’altra mi occupavo della guerra. Bisognava bonificare Donetsk dai soldati nemici e dai sabotatori dell’Sbu, i servizi ucraini», racconta.

Ma «siamo soliti dire: quello che succede nel Donbass, resta nel Donbass. Non voglio parlarne».

«Lavoravo nell’interesse della Russia. Non l’ho mai nascosto. Non ricevevo ordini del Cremlino, ma la mia missione principale era stabilire rapporti con le élite russe, riferire all’élite russe lo stato effettivo delle cose nel Donbass», continua. «Dovete capire che, attorno all’idea della riunificazione del Donbass con la Russia, sin dai tempi della “Primavera della Crimea”, si è formato molto velocemente un gruppo di gente che la pensava allo stesso modo. Questo gruppo era inquadrato in una certa gerarchia di cui io non ne ero al vertice. Posso solo dire che tutte queste persone sono personaggi molto influenti nella Federazione russa. Ma in quel momento nessuno era un funzionario pubblico».

L’esperienza da premier dura poco. Tra gli ucraini dell’Est cresce l’insofferenza verso la gestione russa della rivolta e dopo pochi mesi Borodaj cede il potere ad Aleksandr Zakharchenko (che verrà ucciso da un’autobomba quattro anni dopo) . Borodaj, però, continua a lavorare per il Donbass anche da Mosca. Guida l’Udv che conta 16mila volontari (ma c’è chi li chiama mercenari), la maggior parte veterani. «Molti sono stati feriti o hanno perso il lavoro. Lo Stato non li aiuta perché non è stato lui a mandarli, perciò abbiamo creato un’organizzazione di mutuo soccorso che allo stesso tempo raggruppa le risorse da mobilitare in caso di escalation come adesso».

È per l’Udv, dice, che lo scorso settembre si è candidato alla Duma vincendo un seggio: per ottenere quel riconoscimento negato da Mosca alle compagnie militari private. Ma in realtà, ci tiene ad aggiungere, «già da consulente, ho partecipato a diversi progetti politici, ma come regista o sceneggiatore dietro il sipario. Poi nel 2014 è nata la necessità di uscire sul palcoscenico, un ruolo che all’inizio non aveva previsto». Ora la sua preoccupazione è che «la guerra invecchia» e non tutti volontari «hanno più il fisico» per tornare sul fronte. «Ma molti sono pronti a tornare a combattere nel Donbass. Abbiamo iniziato la mobilitazione. La guerra si farà. Prima o poi».

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