«Questa è la penisola più problematica del continente, ma è anche una delle regioni più ricche di ricordi, di saggezza e al contempo di follia» (Ismail Kadaré).
Gli odi non finiscono mai. E pure i richiami di sangue, i veti incrociati, le promesse di vendetta. Ci sono gli sloveni che mal sopportano i croati. I croati che non vogliono i serbi. I serbi che sognano d’inglobare i kosovari. I kosovari che diffidano dei cugini albanesi. Gli albanesi che vedono male i macedoni. I macedoni che non amano per niente i bosniaci. I bosniaci che liquidano i montenegrini come servi dei serbi…
È un’interminabile filastrocca, una Fiera dell’Est dei rancori che potrebbe ricominciare da qualsiasi punto: i serbi contro i croati, i croati contro i bosniaci, i bosniaci contro i macedoni… «Si nascondono odi brucianti» scriveva il romanziere Ivo Andrić, «autentici uragani di odio tenuto a freno e compresso che maturano in attesa del momento adatto per esplodere». In un film di cinquant’anni fa sulla corte degli zar, Nicola e Alessandra, arriva la notizia dell’attentato di Sarajevo e il commento dei protagonisti è sconsolato: «Purtroppo la politica nei Balcani è fatta così. Mentre gli inglesi votano, i serbi uccidono…».
I Balcani occidentali sono otto piccoli Paesi. Tutt’insieme, hanno abitanti poco più numerosi dell’Olanda, coprono un territorio poco inferiore all’Italia e hanno un prodotto interno lordo che è più o meno quello del Lazio. Una pagliuzza, che da trent’anni si conficca come una trave nell’occhio dell’Europa.
I Balcani, li teniamo lì. Il più possibile fuori dall’Unione europea e dai nostri pensieri. Li osserviamo dalle finestre di casa mentre s’affannano, come si fa coi vicini problematici. Li nascondiamo sotto lo zerbino, polvere che intossica. E senza saper bene che farci. “Bambini politici” li definiva un diplomatico austriaco dopo la Prima guerra mondiale, per ritrarne il nanismo. “Polveriera d’Europa” è una vecchia etichetta finita anche nella Treccani. “Balcanizzazione” si dice in politica d’un disordine frammentato.
I Balcani sono The Little Game, un piccolo gioco per gli appassionati di geopolitica. Gl’incubi delle guerre anni Novanta stanno lontani e comunque sono ancora utili ad agitarne degli altri, a prolungare la sorveglianza delle forze internazionali. Un po’ di soldati Nato, d’osservatori Onu, di funzionari Osce, di poliziotti Eulex1, anche se i Balcani dei nostri anni Venti non sono più strategici come lo erano nel secolo scorso. E le loro tensioni contano assai meno di quelle nell’Asia Centrale o nel Medio Oriente, perché importano poco alle superpotenze, che se ne occupano solo per investirvi soldi o per non avere grane.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, questa regione è precipitata nel disinteresse persino dell’Unione europea, che pure dovrebbe considerarla un’amica privilegiata: quando i sarajevesi si riferiscono agli “eroi di guerra”, ancora adesso, un posto nel loro pantheon lo riservano a una macchina tedesca, la cara vecchia Volkswagen Golf, che durante l’assedio si beveva qualunque tipo di carburante cucinato in casa e marciava anche nei giorni in cui la benzina era introvabile.
Nell’autunno del 2020, i Ventisette hanno deciso che si dovrà aspettare un bel po’ di tempo prima d’inglobare i balcanici mancanti: un giorno saremo i Trentatré, ma chissà quando. Sono passati ormai diciannove anni dalla cosiddetta Agenda di Salonicco, dove il Consiglio europeo decise che l’Ue si sarebbe allargata nei Balcani del dopoguerra, come aveva già fatto per l’Europa dell’Est dopo il Muro.
Chiacchiere. Solo chiacchiere. A tutt’oggi, la Serbia e il Montenegro non hanno percorso neanche la metà dell’iter d’adesione; l’Albania e la Macedonia non hanno nemmeno iniziato i negoziati; la Bosnia e il Kosovo non hanno neppure formalizzato la candidatura a Stati membri. Le stesse Croazia e Slovenia, le sole entrate nel club europeo, rimangono socie di minoranza, confinate in quell’Europa di serie B che attende d’aderire all’Eurozona e di completare le procedure del trattato di Schengen.
Già Henry Kissinger si chiedeva se la Bosnia Erzegovina, che non è mai stata una nazione, potesse sopravvivere da sola. Solissima, anziché essere agevolata, la Bosnia è stata costretta a rispettare al millimetro le farraginose normative europee. Nell’export dell’ortofrutta, ad esempio: per essere rivendute ai croati o agli sloveni, le pesche bosniache non potevano avere un diametro superiore ai 5,6 centimetri e le mele non dovevano superare i sei. «Per la Bosnia» ci fa notare Valentin Inzko, ex alto rappresentante della comunità internazionale a Sarajevo, «la promessa fatta al vertice di Salonicco risale al 2002 e prevede un ingresso non prima del 2033. Trent’anni! Come puoi aspettare trent’anni per sposare una donna? Fosse anche la più bella del mondo, fosse anche Miss Universo!»
Perché tanta incertezza? La prudenza è spiegabile laddove le cicatrici lasciate dalle guerre sono troppo visibili. Ma una lentezza così prolungata è incomprensibile, se si pensa che molti popoli ex comunisti ben più periferici e lontani – vedi i lituani o gli estoni – furono accolti a Bruxelles in meno di quattro anni. «È un’assurdità totale» commenta Romano Prodi, che è stato presidente della Commissione europea nell’epoca dell’allargamento a est.
«Il problema coi baltici era la Russia: la diretta influenza di Mosca ha portato una forte accelerazione, per averli nell’Europa e nella Nato. Anzi, specialmente nella Nato, perché in ogni colloquio l’ossessione era quella: Nato, Nato, Nato, erano fissati… Si ha un bel dire che basta la membership europea per avere sicurezza. In quei Paesi, non ascoltavano nemmeno: dicevano viva la Ue, ma soprattutto viva la Nato. Nei Balcani, l’idea comune era di non toccare le frontiere. Eccetto quelle della Bosnia Erzegovina, perché la Bosnia com’era stata concepita dagli accordi di Dayton dava l’impressione di non avere alcuna possibilità di sopravvivere. Questo frenava un po’ tutto. Ricordo una lunga discussione con Kofi Annan. Io dicevo: la Bosnia non sta insieme, bisogna che la parte serba vada alla Serbia e la parte croata alla Croazia. Lui mi rispondeva: caro Prodi, ma non vorrà mica che in mezzo all’Europa ci sia un’enclave di quel tipo, fuori controllo. E io: guardi che in Europa, un’enclave di quel tipo c’è già, è fuori controllo e si chiama Lussemburgo… Erano i tempi delle guerre balcaniche e c’era l’urgenza di sistemare tutta l’ex Jugoslavia. Ma i criteri per farlo, non erano molto solidi».
Sono passati più di venticinque anni, da quel colloquio fra Prodi e Annan. Molto è cambiato. Di sicuro, a Belgrado e a Podgorica ci sono democrazie incompiute e rischi d’involuzione democratica. E qualche problema resiste a Tirana, come a Skopje o a Priština. Ma nessuno può negare che ormai la pace, una certa stabilità e una buona dose di libertà siano garantite ovunque. Che cosa aspetta, allora, l’Europa? «La mia strategia era quella di far entrare nell’Ue il più presto possibile i Paesi che potevano concretamente entrarci» ricorda l’ex commissario europeo. «Andavo in Slovenia e dicevo: guardate, io appoggio un vostro ingresso rapido, ma per favore fate un accordo coi croati. Lo si trovò facilmente sulla centrale nucleare che avevano in comune, molto più difficile fu quello sul confine marittimo. Poi andavo in Croazia e dicevo: voi dovete applaudire all’ingresso della Slovenia, perché questo prepara il vostro ingresso. Con loro, ce l’abbiamo fatta. Certo, io sarei stato più coraggioso su altri Paesi, magari la Macedonia, perché c’era stato uno sforzo di pacificazione con la minoranza albanese e questo sforzo doveva essere aiutato. Ma tutto sommato, fu fatto il possibile. Molti mi rimproverano un allargamento a est troppo accelerato. Io sostengo ancora che il treno della Storia passa una volta sola e, se avessimo tardato, le cose sarebbero andate peggio. La Polonia, per dire: oggi ha dei problemi, ma io sono sicuro che stando fuori dall’Ue avrebbe potuto averne di peggiori, come li ha avuti l’Ucraina».
da “Maledetta Sarajevo. Viaggio nella guerra dei trent’anni. Il Vietnam d’Europa”, di Francesco Battistini e Marzio G. Mian, Neri Pozza, 2022, pagine 400 euro 19