La Storia è tornata a bussare dalle parti di Sarajevo. La Bosnia-Erzegovina non viveva una simile turbolenza politica dal 1995, quando gli accordi di Dayton avevano regalato una prospettiva di pace a un Paese multietnico in perenne conflitto con se stesso. La convivenza tra serbi, croati e bosgnacchi (i bosniaci musulmani) sembra oggi essere in pericolo a causa in particolare delle rivendicazioni di Milorad Dodik, membro del triumvirato che guida la Bosnia-Erzegovina e leader dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti, il partito di maggioranza della Repubblica Sprska, la parte serba del Paese che sogna di ricongiungersi con Belgrado. Il livello di pericolo è tale da allertare persino la UEFA: la partita di calcio Bosnia-Finlandia, valevole per le qualificazioni mondiali a Qatar 2022 e in programma a Zenica sabato 13 novembre, potrebbe essere disputata in campo neutro.
La situazione
Le ragioni a sostegno di tale ipotesi sono chiare come racconta la Yle, la radiotelevisione di Stato finlandese. Sul caso bosniaco c’è un rapporto di inizio novembre di Christian Schmidt, Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per il Paese, che ha affermato come la minaccia di secessione dei separatisti serbi sia per Sarajevo «la più grande minaccia dalla fine della guerra». Il documento sottolinea inoltre come «le istituzioni della Republika Srpska, guidate dall’Alleanza per i socialdemocratici indipendenti di Dodik, stiano sistematicamente cercando di sciogliere l’Accordo quadro generale per la pace (GFAP), mettendo in pericolo la pace e la stabilità del Paese e della regione».
Eppure, nonostante gli avvertimenti, le Nazioni Unite hanno preferito seguire un’altra strada. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha infatti rinnovato all’unanimità il mandato di peacekeeping di 600 militari europei, radunati nell’operazione nota come EUFOR, rimuovendo qualsiasi riferimento alle parole dell’Alto Rappresentante per evitare un possibile veto russo o cinese. A uscirne vincitore è stato lo stesso Dodik, che è riuscito così a farla franca nonostante abbia annunciato più di 100 atti legislativi che ritirerebbero la Republika Srpska dal governo centrale bosniaco e porterebbero i serbi a formare le proprie istituzioni parallele. Le sue minacce includono il ritiro della quota serba da istituzioni comuni, come la difesa, la magistratura, la riscossione delle tasse e delle dogane e i servizi di intelligence della Bosnia. Particolarmente sentito sarebbe soprattutto l’addio all’esercito, visto che fu proprio l’esercito serbo-bosniaco il principale responsabile del massacro di 8 mila bosgnacchi a Srebrenica.
«Non possiamo permettere ai Bosgnacchi di riempire le quote previste per i Serbi e i Croati e avere un giorno un esercito musulmano», ha dichiarato Dodik facendo riferimento al sistema di ripartizione tra le tre etnie che dà vita alla forza armata bosniaca, oggi composta da 10 mila uomini. Un esercito diviso sarebbe il primo passo verso la dissoluzione della Repubblica Federale bosniaca, prevista già da un leak di un documento europeo dello scorso aprile in cui veniva riportata una spartizione della Bosnia a vantaggio di Croazia e Serbia. La speranza, nemmeno tanto nascosta, sia del presidente serbo Alexsandr Vucic che di Vladimir Putin, due dei grandi sponsor di Dodik insieme a Viktor Orban e Janez Janša, che di recente gli hanno fatto visita a Banja Luka, capitale della Republika Srpska.
Il personaggio
La minaccia stavolta sembra seria e gli alleati sono di assoluto spessore. Eppure, il leader politico dei serbi di Bosnia viene ancora oggi trattato come un novello Pierino che grida al lupo: nessuno crede a quello che dice. Il paragone sembrerà eccessivo ma è così che viene visto Dodik dalle principali istituzioni internazionali. Classe 1959 e un cursus honorum percorso tutto all’interno delle istituzioni serbe della Bosnia, da cui poi ha preso il volo per quelle federali, Dodik ha sempre avuto in testa un unico pensiero: la secessione della Repubblica Sprska dalla Bosnia-Erzegovina. Una minaccia ormai ripetuta da quasi 15 anni ma mai concretamente realizzata, visto che l’intenzione era soprattutto quella di indebolire il controllo occidentale su Sarajevo, ottenendo concessioni su concessioni, rafforzando i legami a Oriente.
Il primo, e pare quasi ovvio, è quello con il presidente serbo Alexsandr Vucic che a sua volta, è costantemente accompagnato da Dodik in tutti gli incontri pubblici, poco importa se siano interni o internazionali, per motivi soprattutto di immagine: Belgrado punta da tempo a rinnovare la sua immagine di grande potenza nella regione, intromettendosi spesso nelle questioni di altri Paesi (come nel caso del Montenegro, che Linkiesta ha raccontato alcune settimane fa). Un altro è quello con la Russia, grande alleata del governo di Banja Luka nell’indebolire il controllo dell’Occidente sulla Bosnia come dimostra il tentativo (riuscito) di sminuire la figura di Schmidt in seno al Consiglio di sicurezza.
A questi due non potevano mancare ovviamente sia Slovenia che Ungheria che su simili fascicoli procedono spesso a braccetto: l’ultima visita in ordine di tempo è stata quella di Jansa, presidente di turno del Consiglio dell’Unione e tra le possibili menti dietro la spartizione della Bosnia, ma ben più significativa è stata la visita di Orban e del suo ministro degli esteri, Péter Szijjártó, qualche giorno prima. La ragione è chiara: il governo ungherese ha preferito fare visita prima al governo serbo di Bosnia e poi a quello federale.
Un esempio concreto delle parole espresse dall’autocrate: «Rispetto molto la Bosnia Erzegovina, ma vorrei avere legami ancora più stretti con la Repubblica Sprska». La volontà di stringere questo legame ha evidentemente un piano dietro, come dimostra la volontà espansiva dello stesso esecutivo ungherese, in questi giorni impegnato anche nell’acquisizione del secondo più grande distributore di energia elettrica della Slovacchia. Dodik sembra essere la marionetta perfetta.
Reazioni e conseguenze
Tante parole ma poche azioni finora sia da Bruxelles che da Washington. «La Bosnia è in un momento critico nella sua storia del dopoguerra. La retorica accesa deve finire», ha dichiarato l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield. Sonia Farrey, coordinatrice politica del Regno Unito presso le Nazioni Unite, ha evidenziato come il rapporto di Schmidt dipinga «un quadro molto preoccupante. Dobbiamo prestare la massima attenzione al suo avvertimento sulle reali prospettive di ulteriori divisioni e conflitti».
Le sanzioni però finora sono state poche, anche perché non c’è ancora un parere comune sulla reale minaccia della Bosnia. Lo dimostra l’intervista Al quotidiano austriaco Der Standard di Aleksander Placer, comandante della forza di peacekeeping EUFOR in Bosnia, che ha dichiarato di «non aver visto alcuna minaccia militare in seguito alle mosse di Dodik per creare un esercito serbo, che però non è ancorato all’accordo di pace di Dayton. La situazione della sicurezza in Bosnia è stabile in questo momento».
Mentre gli Stati Uniti inviano ambasciatori per capire la serietà delle intenzioni di Dodik, a Bruxelles tutto resta fermo. Da segnalare soltanto le parole di Peter Stano, portavoce del capo della politica estera dell’UE Josep Borrell, che ha sottolineato come la situazione in Bosnia «sia una fonte di grande preoccupazione per l’Unione europea». Su tutto il resto vige il silenzio. «Penso che la mancanza di comprensione della situazione in Bosnia, in particolare da parte dell’UE, sia enorme e che sarà proprio Bruxelles a pagare il prezzo più alto per questa mancanza di reazioni tempestive», ha affermato Senada Šelo Šabić, ricercatore senior presso l’Istituto croato per lo sviluppo e le relazioni internazionali in un’intervista a POLITICO Europe. «Semplicemente, l’attenzione è altrove, cosa che capisco perfettamente. Ma, sfortunatamente, l’Europa non può evitare le conseguenze del conflitto o il degrado della Bosnia per la propria sicurezza e i propri interessi politici ed economici».