Crisi idrichePerché è importante fermare il degrado delle zone umide

Dalle torbiere ai laghi alpini, sono diverse le aree blu tutelate dalla Convenzione di Ramsar. Eppure la condizione attuale di queste fucine di biodiversità – e sorgenti di servizi ecosistemici – è preoccupante

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Dal 1971 molte zone umide sono tutelate dalla Convenzione di Ramsar, sottoscritta da oltre 170 Stati. Eppure, ancora oggi, non possiamo certo dire se la passino bene. Custodi di biodiversità e insieme ecosistemi che forniscono la maggiore quantità di servizi ecosistemici, le zone umide sono unità discrete, quindi circoscritte e molto fragili. «Se ne distruggi una, quella scompare», ha spiegato a Greenkiesta Nicola Baccetti di Ispra.

Dagli stagni e laghi alpini alle paludi, acquitrini, torbiere, bacini di acqua (dolce, salmastra o salata) e distese di acqua marina con una profondità durante la bassa marea non superiore ai sei metri, in Italia le zone umide sono migliaia ma solo 57 – distribuite in 15 regioni – sono riconosciute dal Segretariato della Convenzione di Ramsar. Altre 9 aree, sempre istituite secondo i criteri Ramsar, attendono il completamento della procedura di riconoscimento internazionale.

Custodi del territorio
Tra i tanti servizi ecosistemici che queste riserve di biodiversità garantiscono, molto importanti sono la fitodepurazione che, grazie alle alghe, microrganismi e organismi superiori vegetali, ci permette di disporre di acqua potabile e poi la cattura del carbonio in atmosfera. Si stima che a parità di superficie, rispetto a una foresta, una zona umida riesce a catturare dieci volte in più la quantità di carbonio presente in aria. «Si rafforza sempre più il concetto che tutelare queste aree è strategico soprattutto da qui al 2050, viceversa dovremo farci carico di conseguenze molto importanti che colpiranno tutti gli ecosistemi», ha spiegato a Greenkiesta Susanna D’Antoni, responsabile aree protette Ispra e riferimento italiano sugli aspetti tecnico-scientifici nell’ambito della Convenzione di Ramsar.

Le zone umide giocano anche un importante ruolo nella tutela del territorio. «Tutte le cinture umide costiere presenti anche in Italia sono protettive nei confronti di mareggiate che possono invadere i territori retrostanti e di alluvioni che possono arrivare dall’interno. Pensiamo all’Oceano Indiano, che ospita tutta la fascia dei mangrovieti, una vera e propria zona umida in grado di garantire protezione contro il rischio tsunami, ad esempio. Si tratta di zone-cuscinetto con una funzione idraulica importantissima», ha spiegato Baccetti.

Gli antagonisti delle zone umide
Tuttavia, lo stato di salute di queste aree è preoccupante. Basti pensare che dal 1700 ad oggi ne è scomparso circa l’85%: il 35% di questa perdita è stata raggiunta negli ultimi 50 anni. «Numeri – ha sottolineato D’Antoni – che non hanno precedenti nella storia dell’uomo. A questi ritmi, oltre 2 miliardi di persone sono destinate a vivere una condizione di stress idrico e la biodiversità continuerà ad essere gravemente minacciata».

Una delle cause principali di questo degrado è l’agricoltura intensiva che, soprattutto in alcune aree pianeggianti, collinari e di fondovalle, ha indotto la conversione dell’uso del suolo e la bonifica anche delle piccole zone umide. Insieme alla zootecnia, questo settore consuma 2/3 dell’acqua dolce disponibile e modifica l’intero reticolo idrografico presente, compromettendo la ricarica delle falde acquifere. Un problema aggravato dal climate change: dal 1960 al 2000 la capacità d’acqua dei corsi idrici nel bacino mediterraneo ha registrato perdite che vanno al 25 al 70%.
«Antagonisti di queste fragili aree sono anche le discariche abusive: soprattutto in alcune aree del Sud, la zona umida viene vissuta come “zona di nessuno” e quindi deputata a diventare deposito di rifiuti. Da non sottovalutare è poi la caccia, che ha riversato sui fondali quantitativi di piombo tali da avvelenare le specie autoctone».

Le azioni da mettere in campo
Tra le strategie da adottare per invertire questa tendenza c’è l’uso oculato delle risorse idriche e dunque la riduzione dell’inquinamento. «Per il cittadino questo significa, ad esempio, scegliere saponi biodegradabili, non immettendo così di azoto e potassio nelle acque, che attivano una serie di problemi a cascata, in primis l’eutrofizzazione» – ha sottolineato D’Antoni – «Poi, ancora, cercare di alimentarsi con alimenti provenienti da una agricoltura e zootecnia sostenibili e il più possibili locali e infine abbattere gli sprechi idrici nella nostra quotidianità».

Per quanto riguarda invece gli accorgimenti che non dipendono dal singolo cittadino bensì dalle amministrazioni, la protezione e il ripristino delle zone umide richiede di disporre di dati, anche digitali e satellitari, aggiornati per monitorare, nel breve tempo, il trend di questi ecosistemi».

«Come Ispra, insieme a 15 agenzie regionali ambiente e 13 regioni, dal 2008 ci impegniamo nella redazione e aggiornamento dell’inventario nazionale. Questo ci ha permesso sia di avere una idea di massima sulla distribuzione delle aree che di individuare quelle che potevano essere interessanti per un loro riconoscimento a livello internazionale. Sulla base di queste conoscenze, negli anni il numero di zone umide istituite in Italia è cresciuto ed è superiore rispetto a quello di altri Paesi. Sono anche di particolare pregio a livello ambientale, anche per le specie vegetali e animali che presenti», ha specificato D’Antoni.
Oltre alla conversione sostenibile dei settori agricoli e zootecnici, che altrimenti favorirebbero il degrado dei terreni intorno alle zone umide, spesso soffocate dai liquami prodotti dai capi alleati, è importante abbattere il ricorso ai pesticidi, in particolare quelli più pericolosi per gli ecosistemi acquatici.

Infine, il cambio di rotta sull’approccio di gestione di queste fragili e importantissime aree. «Troppo spesso le strategie adottate per proteggere queste aree si sono rivelate, in Italia ma anche altrove, troppo settoriali– ha spiegato D’Antoni – Questi ambienti richiedono invece una forte integrazione delle diverse esigenze di produzione, tutela e protezione e quindi una visione multidisciplinare».

Una connessione che deve essere sostenuta anche tra le stesse zone umide. Ricordiamocelo: più questi ecosistemi sono in comunicazione, ad esempio attraverso reticoli idrici sotterranei o superficiali, più la loro produzione di servizi ecosistemici aumenta. «Ciò cui dobbiamo tendere è il ripristino di queste connessioni», ha concluso Susanna D’Antoni.

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