Bene, sedetevi, è arrivato il momento di trovare antidoti alla sbornia sanremese, se ne siete stati colpevolmente vittime. La prima proposta si chiama “La mia patria attuale”, nuovo album di canzoni di Massimo Zamboni, chitarrista e co-fondatore dei Cccp e dei C.s.i., il primo dopo una decina d’anni punteggiati di tanti progetti diversi, concept o strumentali, come “Sonata a Kreuzberg” o “Macchia Mongolica”.
Disco di idee e riflessioni, in cui Massimo rinuncia a occuparsi delle chitarre per concentrarsi interamente sul canto, vincendo le intermittenti ritrosie che l’hanno contraddistinto al riguardo, scegliendo spesso di affiancarsi a interpreti come Lalli, Nada o Angela Baraldi, e qui affidando la produzione e la maggioranza delle parti suonate ad Alessandro Stefana, il chitarrista di Vinicio Capossela.
Fin dall’imbocco del disco, per coloro che hanno frequentato le lontane atmosfere d’arroganza culturale imposte dai Cccp, arriva la sensazione d’essere a casa: questa è la musica del ragionamento e della provocazione, anche se ora le forme non sono più quelle del punk dimostrativo concepite con Giovanni Lindo Ferretti e la voce di Zamboni non raggiunge i toni tumultuosi dell’antico compagno ma sceglie invece di collocarsi più compostamente nel solco del cantautorato che al tempo dei Cccp erano all’incirca il diavolo.
In un pezzo in particolare, “Tira Ovunque un’aria Sconsolata”, Zamboni canta proprio nello stile di Francesco Guccini, l’unico d’altronde della vecchia schiatta di cui ha sempre ammesso d’aver apprezzato la produzione, soprattutto per la comunanza d’origine appenninica che rendeva condivisi parecchi argomenti.
Ma, se vi sentite nello stato d’animo adatto, il bello di ascoltare, anzi affrontare, un album come questo, sta nella netta sensazione di confrontarsi con un’esperienza culturale, una coniugazione complessa di forme e contenuti, nell’epoca in cui le prime hanno definitivamente sbaragliato i secondi, fino a toglier loro cittadinanza nel mondo della musica italiana.
Quindi una minuscola operazione di rottura, i cui effetti ciascuno misurerà in proprio ma che, per quanto ci riguarda, ha smosso qualcosa – e volutamente non vogliamo andare oltre. “La mia patria attuale” è un album comunque ricco di stimoli e denso di musicalità, incentrato sui rovelli destati proprio da quel sostantivo, divenuto infido, di “patria”, laddove dovrebbe continuare a definire l’appartenenza incancellabile, l’imprinting originale e il legame – non certo l’organizzazione dell’orgoglio nazionale.
Tanto è vero che, come si capisce in diversi luoghi del disco, la prima patria a cui corre la mente di Zamboni è l’Emilia, prima dell’Italia, posto dal quale è partito mille volte in cerca di illuminazioni, a Berlino, nell’Unione Sovietica, nella sua beneamata Mongolia, ma a cui è sempre tornato, non smettendo mai d’esserne un cittadino, e perfino un agricoltore musicista.
Al tema Zamboni di recente ha dedicato anche un bel libro diaristico “La Trionferà” (Einaudi), tracciando la sua storia di Cavriago, la “piccola Pietroburgo” comunista a due passi da Reggio Emilia, che si congiunge perfettamente col brano di chiusura di quest’album “Il Mondo Emiliano di Portare il Pianto”, preghiera parlata su musica bandistica, che ha il sapore di un commosso elogio funebre alla consunzione di uno spirito comune. Perché l’intenzione umanistica del progetto infine è quella di pronunciare un lamento su vari timbri attorno alla perdita di un’identità e, ancor di più, del coraggio, dell’orgoglio e della consapevolezza che grazie a quell’identità trovano forza.
Popolo confuso e macilento, coercito e oppresso, quello descritto da Zamboni, in dieci pezzi che declinano frammenti di uno sfacelo corrotto dal populismo. Resta il fort Apache del localismo a cui aggrapparsi, la conoscenza profonda, la familiarità e l’esperienza che ti legano a una terra – “indocile”, come Zamboni definisce la sua regione.
“La mia patria attuale” è un disco serio e difficile per le orecchie d’oggi, ombroso e speculativo. L’idea di sentirlo suonare – con tutti gli echi che porta in sé – da qualche autoradio che ci s’affianca al semaforo – mentre Zamboni intona: «Conviene compagni tornare a temere/Le croci uncinate, le scure galere” – ci affascina da morire.