Maria Corti è stata una figura di rilievo della cultura italiana: docente accademico di forte presenza, teorico di semiotica letteraria e attiva in riviste letterarie di qualità e sui quotidiani nazionali. Non è stata saggista di spicco, un grande scrittore-lettore: il suo contributo fondamentale ha preso forma in quella che oggi possiamo dire una istituzione: il Fondo Manoscritti di autori moderni e contemporanei, nato nel 1973 e attivo e ricco di tesori in quel di Pavia, nel cortile Sforzesco della locale Università. Un vero e proprio miracolo di lungimiranza e di pertinacia intellettuale, nel Paese dei balocchi e dei garbugli. Un luogo della letteratura e un lascito.
Bene ha fatto quindi la Einaudi a riproporre Ombre dal fondo, l’anomalo memoir e quasi Libro d’ore che Maria Corti ha dedicato all’avventura che sono stati i primi trent’anni del Fondo Manoscritti, con lei al timone e studenti e ricercatori alla voga. Meglio ancora il fatto che venga pubblicato nella collana Letture, diretta da Mauro Bersani: è, con la collana Frontiere, diretta da Andrea Canobbio, uno dei luoghi del catalogo dove il lettore può ritrovare dei segni d’identità della Giulio Einaudi editore. Identità sempre più vacillante per mancanza di un editore che sia tale.
(Tornerò e presto su questo discorso: è arrivato il momento di farlo. Intanto il lettore metta il naso nel catalogo delle due collane, Frontiere e Letture: troverà alcuni dei libri più rappresentativi della cultura Einaudi e la profondità di un catalogo che pure ha subito perdite gravi quando non inammissibili: vedi Cesare Pavese).
Ombre dal fondo è una narrazione con due personaggi: le Ombre, gli scrittori che hanno donato i loro manoscritti, e le Carte, i manoscritti stessi, vere presenze che alimentano il colloquio con le ombre e si offrono alla passione dei lettori: primi fra tutti gli archivisti addetti alla schedatura delle carte, ma anche ricercatori e studenti. Passione, ecco la parola fondamentale. Chi ha incontrato anche solo una o poche volte Maria Corti sa che la passione era il carburante che alimentava il motore di seria cilindrata della milanese di nascita e di fatto. Ho avversato la semiologia e lo strutturalismo, di cui la Corti con Cesare Segre è stata alfiere: pure non si poteva rimanere indifferenti di fronte alla sua passione per la letteratura e i suoi artefici: più, e da buon filologo non secondarie, le carte. Anzi, le Carte. Si potrebbe dire che fosse scritto che avrebbe avuto l’intuizione e la forza di inventare e dirigere il Fondo verso il compimento. Servono doti non comuni tra i letterati; meglio: una passione. Maria Corti e le carte: è stato quel che si dice a perfect match.
Un memoir, dicevo: diviso in cinque parti, a ciascuno dei quali la Corti dà sottotitolo metaforico: andante con moto, allegro vivace, rondò, allegretto, fuga finale: come a figurare la diversità di registro narrativo, che c’è, ma governata dal tono unito della narrazione. Un tono peculiare: il tono di chi racconta un viaggio in terra incognita e abitata da fantasmi. (Il fantasma è uno e uno solo – ma non corriamo). Tale è stata l’avventura del Fondo Manoscritti: era allora una novità e rivoluzionaria, tanto da non essere contemplato nell’oscuro registro delle competenze e possibilità redatto chi sa dove e quando. Memorabile la frase dell’arguto prefetto a dire il Ministero: “Era lì che si risolveva tutto, nel cuore del sistema costituito”. Una frase che riporta ancora la rabbia del letterato di fronte a una così compiuta e conclusiva figura di quell’’’impasto nazionale di artificiosa retorica e di realtà” che è l’Italia ministeriale. Bisognava attraversare quella terra incognita. Intanto, a seguire il primo nucleo donato proprio da Maria Corti, iniziavano ad arrivare le carte donate dagli scrittori: bisognava trovare lo spazio, impresa non facile in una università italiana, dove ogni docente è un decorato al valore nella conquista di stanze e bugigattoli e accessori. (La storia dei traslochi dentro l’ateneo pavese, fino al colpo di fortuna di un trasloco di altri e così la conquista delle stanze che danno sullo splendido cortile Sforzesco, è pura narrativa universitaria). Lì, nelle stanze dove a tempo arriveranno gli armadi metallici blindati dove riposano i manoscritti, le Carte, è la vera epifania: Maria Corti dice l’avanzare del silenzio nel cortile Sforzesco e le sale che diventano un luogo delle ombre, le Ombre: i fantasmi degli scrittori delle carte. Per chi conosce Pavia e i suoi tardi autunni che paiono eterni, la suggestione è viva.
A tenere insieme i capitoli della narrazione sono gli incontri: gli autori amici ancora vivi che offrono le loro carte, gli eredi di autori, i collezionisti e i corrispondenti di uno scrittore di qualità e valore. Una vivace umanità colta dal vivo e in piena luce. Romano Bilenchi, che chiama Maria Corti a Firenze, a casa sua, le indica tre sacchi di plastica sul pavimento, le chiede se riesce a portarli in treno a Pavia per il Fondo: dentro c’è una prima parte dell’epistolario: “Tanta vita e letteratura lì dentro. E tanti nomi ormai dimenticati. C’è sempre una moria di nomi dentro di noi. Pochi si salvano e magari non sono neanche i migliori; magari si salvano per puro caso”, dice lo scrittore. Montale che dona con continuità manoscritti e fogli sparsi, quaderni, una “rivistina” inglese di poesia con sue postille; poi un giorno, nell’autunno del 1973, prima di andare a Padova per un intervento chirurgico, invita Maria Corti in via Bigli e le porge una busta di raso rosso: dentro ci sono dei manoscritti di Ossi di seppia, tutti datati e qualcuno diverso dall’edizione a stampa. Giorgio Manganelli è stato donatore imprevedibile: ha disposto per tempo il dono delle carte e della sua magnifica biblioteca, quindicimila volumi di cui alcuni molto rari e vari postillati: due tir di materiali che metteranno in difficoltà il Fondo, salvo diventare lo spiritello del colpo di fortuna che porta alle sale sul cortile Sforzesco. Impagabile la disposizione che Manganelli lascia a Ebe Flamini: “Il Fondo è statale, quindi povero. Manda alla Maria anche tutte le scaffalature”. Sono gli scaffali in noce che oggi stanno nella Sala Manganelli del Fondo, luogo magico tra gli altri. Sono solo alcuni degli aneddoti che punteggiano la narrazione.
Pure le pagine che restano a memoria sono quelle dei soliloqui interiori dell’autore, quando siede sola nell’ora della “solita alta marea serale” che a Pavia è la più bella, al tavolo bianco della sala Manganelli: “Non un locale universitario, ma un teatro della mente; dunque un itinerario offerto a fantasmi, attraversato da tanti possibili linguaggi; il Fondo è luogo che si costruisce da sé, quasi a nostra insaputa”. Ecco allora che le interrogazioni sul futuro prendono spazio e tengono banco nella mente e non senza inquietudine. L’interrogativo, allora come oggi, è quello più pertinente: “Il computer porterà all’estinzione di tutto questo?”. Maria Corti immagina le guide che nel Fondo ora museo spiegano ai visitatori come un tempo ci fosse un rapporto diretto tra l’oralità e la scrittura e come “quest’ultima proteggeva sul bianco della pagina l’individualità di chi aveva la penna in mano e produceva una personale propria grafia (…) E tutto questo scrivere a mano faceva parte della comunicazione”. Era comunicazione, direi – quando ancora si poteva pronunciare la parola. Discorso ancora più lampante quando si passa ai disegni lasciati da poeti e prosatori sui fogli, accanto alla scrittura: figure di una immagine forse remota, non recuperabile, ma di certo legata alla pagina scrittura. “I disegni del Fondo prendono furtivamente alle spalle, fanno capriole, saltano da un cielo all’altro”, scrive Maria Corti, quasi divertita. La mano, la nostra grande dimenticata.
Rileggiamo Henri Focillon e mandiamolo a mente, una buona volta: “Mi accingo a intraprendere questo elogio della mano così come si adempie ad un dovere di amicizia. Nel momento in cui inizio a scrivere vedo le mie, di mani, che sollecitano, che stimolano la mia mente. Eccole, compagne instancabili, che per tanti anni hanno assolto il loro compito, l’una tenendo fermo il foglio, l’altra moltiplicando sulla pagina bianca quei piccoli segni scuri, fitti, persistenti. Grazie ad esse l’uomo prende contatto con la dura consistenza del pensiero, arriva a forzarne il blocco. Sono le mani ad imporre una forma, un contorno, e, nella scrittura, uno stile”. Tutto è nella frase a cui ho imposto il corsivo – e non avrei voluto.
Tout se tient: frase talismano dello strutturalismo che in realtà nasce ben prima, nella mente dello scrittore-lettore: è l’incipit anche della sobria prefazione di Mauro Bersani al memoir di Maria Corti. “Nella sua maturità la Corti sembra attratta dai fantasmi più che dai metodi [il riferimento è al libro-caposaldo Metodi e fantasmi], è attirata dall’invisibile più che da quanto si possa analizzare e calcolare. Un’abiura del razionalismo semiotico-strutturalista?”, si domanda a ragione Bersani. Piuttosto un ampliamento dell’ottica, si risponde – e non mi convince. Io lo direi ben di più e comune a chi ha vissuto con e per i libri: il sapere infine il fantasma uno e uno solo: la letteratura. Lo scrittore-lettore lo insegue nel libro come nelle carte e nei disegni. Ben si guarda dal sedere comodo sul Metodo – e sorride.