Nel panorama di rovine politiche dell’Italia bipolare, che andrebbe musealizzata e trasformata in una tappa d’istruzione democratica obbligatoria per tutti gli studenti – «Ecco cosa non bisogna fare, ragazzi» – la rielezione di Sergio Mattarella non è purtroppo una garanzia di nulla, se non del fatto, altamente positivo, che al Quirinale non c’è finito, come pure sarebbe potuto succedere, un prestanome o un vigilante.
C’è tornato invece un politico di lungo corso, di cui chiunque da decenni può apprezzare o disprezzare idee e azioni in base a un metro di libera critica politica, non però secondo la misura di una presunta neutralità, che la rappresentanza democratica dello Stato – proprio in quanto democratica – di per sé esclude e solo gli analfabeti e gli sfasciacarrozze delle istituzioni pretendono e impongono come requisito dai candidati a ruoli di garanzia, a partire da quello quirinalizio.
Malgrado l’elezione di Mattarella, il pericolo scampato rimane incombente perché ormai connaturato all’egemonia culturale dell’antipolitica, che ha conquistato molte delle casematte del potere, non solo all’interno dello Stato, ma soprattutto nei processi di formazione del consenso politico.
L’antipolitica è diventata il pensiero e il linguaggio prevalente nel cosiddetto Palazzo, nei giornali, nella televisione, nell’informazione digitale. Il discorso politico si è conformato a quello antipolitico, rovesciandosi in esso e provando così a rilegittimarsi, sul presupposto che il suo paradigma – l’equiparazione del pluralismo a particolarismo affaristico e a interesse privato, la preferenza per toghe, divise e feluche e il disprezzo di titoli e dignità parlamentari – non sia più refutabile.
Lo ha dimostrato proprio la discussione sul nuovo Capo dello Stato, che la non autosufficienza numerica e le divisioni interne delle due coalizioni di centro-destra e centro-sinistra ha fatto esplodere nella ricerca spasmodica di figure super partes, non intese nel senso dell’imparzialità e del rigore nell’osservanza degli equilibri costituzionali, ma dell’estraneità al circuito politico democratico e della non compromissione con la vita dei partiti.
Operazione Casellati a parte (più che una prova di forza, una manifestazione suicidaria di debolezza e di cupio dissolvi dell’interessata e dei suoi sostenitori) il centro-destra ha provato a uniformarsi alla vulgata presentando prima tre nomi schierati, ma «senza tessere di partito», come ha detto Matteo Salvini per accreditarne la quasi neutralità. Poi anche il centro-destra, dopo l’operazione Casellati, è entrato nello schema di rose di candidati per lo più selezionati in base al criterio pornografico della verginità politica.
Così dopo decenni e decenni in cui al Colle si sono alternati dirigenti di partito, leader politici e uomini di governo di cui chiunque conosceva le idee su tutto, questa volta si è quasi mandata al Quirinale un’alta dirigente pubblica – peraltro titolare dei servizi d’intelligence – di cui nessuno conosce le opinioni su niente e che, visto il mestiere che ha fatto e che fa, è comprensibilmente incline a non dichiararle.
Eppure, proprio questa circostanza, che avrebbe dovuto sconsigliare l’azzardo, è finita per apparire la migliore delle credenziali della candidata. D’altra parte, la temporanea convergenza dei quattro principali partiti italiani (Partito democratico, Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle) sul nome di Elisabetta Belloni è stata la coerente, anche se grottesca conseguenza del tentativo di spoliticizzare il ruolo della presidenza, riconvertendola in una sorta di occhiuta guardiana della Repubblica, per cui andava trovato un candidato non politico, ma con consuetudine ed esperienza nell’esercizio del potere pubblico: quindi a suo modo rappresentativo, in un senso meno partigiano e più puro, del superiore interesse delle istituzioni.
Chi ha considerato a lungo questa ipotesi auspicabile o anche semplicemente possibile ha ritenuto che per difendere l’unità della nazione sia oggi diventato necessario o comunque preferibile che il prescelto, dovendo incarnare il tutto dello Stato, sia immune da qualunque compromissione con una delle sue parti, per prime quelle sovrastrutturalmente politiche, cioè i partiti.
Siamo arrivati al trionfo postumo di Gianroberto Casaleggio, che nel 2013 faceva dire a Grillo che «con il Movimento al 100% i cittadini diventeranno lo Stato», cioè solo dissolvendo il carattere pluralistico del sistema democratico nell’unità mistica della volontà generale sarebbe stato possibile unire il popolo, che i partiti invece dividono, e perseguire il comune interesse dei cittadini.
La neolingua messianico-prefettizia dei barbari non romanizzati, per cui istituzionale è il contrario di politico e democratico di partitico, è diventata la nuova koinè dei palazzi romani ed è sempre più evidente che una difesa della (ovviamente: “buona”) politica con la lingua dell’antipolitica è un esercizio d’ipocrisia e di cattiva coscienza e che l’istituzionalizzazione dei nostri gilets jaunes non ha cambiato in meglio loro, ma in peggio, molto in peggio, le istituzioni e antipoliticizzato pure quelli che si continua a chiamare immeritatamente partiti.
Alla fine, questa volta è stato eletto Mattarella, per assenza di alternative e per una sorta di rivolta del Parlamento, magari pure guidato da calcoli contingenti sulla durata della legislatura, a dimostrazione dal fatto che in politica il legame tra l’interesse e la virtù è qualcosa di troppo complicato da capire leggendo Marco Travaglio e non Niccolò Machiavelli.
Festeggiare però il ritorno della politica è più che prematuro: è illusorio. La proposta di legge annunciata dal Pd, due giorni dopo l’elezione di Mattarella, per decretare l’ineleggibilità a cariche politiche dei capi dell’intelligence – esempio francamente patetico di dissociazione postuma: avrebbero potuto votare Belloni, a quanto pare, perché mancava una legge che lo impedisse – dimostra del resto che in questa riflessione sui rapporti tra partiti, politica, istituzioni e pubblici poteri non si parte da zero, ma da sotto zero.