Putin fa la guerra, aggredisce l’Ucraina, bombarda, spara, uccide e l’Occidente subisce, non reagisce se non con sanzioni economiche che, come sempre, come con la Crimea del 2014, scalfiscono appena il Cremlino. Uno scenario sconfortante di impotenza dell’Occidente, delle democrazie, beffate da un autocrate privo di scrupoli.
Pare a oggi del tutto prevedibile che la guerra si concluderà, non si comprende se nel breve o nel lungo periodo, con una sconfitta del governo di Kiev, con il controllo militare russo di tutto il Donbass, incluso lo strategico porto di Mariupol, e forse addirittura con teste di ponte russe su Odessa e altrove in Ucraina. Non è esclusa nemmeno una prova di forza militare russa diretta contro il governo a Kiev che comunque cadrà dopo la probabile sconfitta militare e quindi il conseguimento dell’obiettivo dichiarato di Putin: infeudare alla Russia l’Ucraina.
Giuste e vibrate le condanne e lo sdegno della comunità internazionale, non certo della Cina, ma resta saldo e immutato il principio occidentale che oggi alla guerra non si risponde con la guerra. Quindi Putin, vincerà su tutta la linea, appena infastidito dalle sanzioni. Questo è il pronostico più probabile.
All’Occidente non resterà che impostare una difficile trattativa con la rinata, cinica e violenta potenza russa per dividere le sfere di influenza ponendo linee rosse invalicabili attorno ai paesi baltici e alla Polonia.
La domanda che ci impone la debolezza occidentale a fronte della tracotanza guerresca di Mosca quindi è inderogabile ed è cruda: come si è arrivati a questo grado di debolezza delle democrazie? Come e perché si è a tal punto sbagliata per venti è più anni l’analisi sulla Russia e su Putin al punto di avergli consegnato il controllo delle fonti energetiche dell’Europa?
Molte le risposte a chi cerca le ragioni della cecità dell’Occidente e soprattutto dell’Europa, da Fukuyama in poi. Due però prevalgono su tutte, intrecciate.
Innanzitutto l’illusione liberale (ma supportata anche da una visione marxiana) che lo sviluppo economico impetuoso e la liberalizzazione delle frontiere, l’integrazione delle economie e dei mercati col World Trade Organization, la globalizzazione, avrebbe avuto come portato meccanico e certo l’avvio di processi di democratizzazione in Russia e Cina.
La seconda risposta, gravissima, è stata la sottovalutazione del radicamento nei popoli, in particolare in Russia e Cina, del nazionalismo, del senso di appartenenza della comunità nazionale, delle radici e del proprio ruolo nella storia. Cadute le ideologie del novecento è invece riemersa prorompente e dominante la ideologia che ha supportato i conflitti europei e mondiali da sempre: il nazionalismo. È così contemporaneamente caduta l’illusione che eliminati i motivi economici delle guerre, integrate le economie, sarebbero sparite le ragioni stesse di muovere guerra. Invece queste si ripropongono con forza con motivazioni tanto geopolitiche quanto di culture nazionali come Putin ha perfettamente e chiaramente illustrato nel lungo discorso che ha preceduto la sua dichiarazione di guerra all’Ucraina.
Oggi dunque i nazionalismi dettano tutte le agende politiche, in primis il nazionalismo russo e quello cinese. Questo è il dato di fatto.
Nella stessa Ucraina abbiamo assistito dal 2014 in poi proprio a questo scontro, che ha dinamiche plurisecolari, tra un nazionalismo ucraino storicamente legato all’occidente e il nazionalismo della Grande Russia che fa presa e ha grande consenso popolare nel Donbass. Col di più che il nazionalismo ucraino di Kiev oggi è supportato da forze politiche più che discutibili e avventuriste.
Gli accordi di Minsk del 2014, che hanno chiuso la fase della guerra civile cruenta tra questi due nazionalismi, hanno rappresentato il tentativo della Germania di Angela Merkel e della Francia, con l’accordo di Putin, di mediare tra queste forze nazionaliste ucraine confliggenti creando un assetto federale, con grande autonomia al Donbass e col suo diritto di porre il veto a eventuali alleanze estere. Ma le forze del nazionalismo che hanno controllato il governo di Kiev, pur sconfitte e con onta sul piano militare, hanno rifiutato di applicare quegli accordi.
Da parte sua, l’Europa prigioniera di una ideologia tutta e solo incentrata sul mercato ha abdicato al suo ruolo politico, ha lasciato marcire la crisi ucraina e non ha premuto, come avrebbe dovuto, per imporre un tavolo di trattative che implementasse gli accordi di Minsk, che trasformasse l’Ucraina in una Repubblica federale in grado di stemperare e far convivere gli opposti nazionalismi.
Putin ha atteso otto anni e infine, due mesi fa, ha presentato all’Occidente un documento di richieste incentrate sulla garanzia di un non ingresso dell’Ucraina nella NATO e sull’applicazione degli accordi di Minsk. Stati Uniti ed Europa hanno rifiutato queste richieste. Putin allora ha agito da Putin, come prevedibile ma non previsto (lo aveva già fatto in Georgia nel 2008), e ha scatenato una guerra di annessione e distruzione. Che vincerà, vista la fragilità dell’esercito ucraino e la ribadita decisione della NATO e della Ue di non farsi coinvolgere nel conflitto armato.
A breve, dunque l’Occidente, finita questa guerra, terminate le pur giustissime e ferme condanne e lo sdegno, dovrà sedersi al tavolo con Putin, dovrà prendere atto dei nuovi rapporti di forza sul terreno, inclusa una Ucraina infiacchita dalla sconfitta militare, e siglare proprio quell’accordo sulla divisione delle zone di influenza e sui nuovi equilibri militari che sinora si è rifiutata di siglare in nome di astrattissimi principi sulla libertà dei popoli di scegliere le proprie alleanze.
Putin comunque è stato chiaro nel suo lungo discorso che ha preceduto il riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Lugansk: il nazionalismo russo che domina l’Europa continentale da cinque secoli ha superato la crisi del fallimento dell’URSS e intende dettare l’agenda in Europa. Questo sta facendo manu militari e non gli importa quante vittime civili, donne e bambini, costerà.
Il dramma è che di fronte a questo nazionalismo, come a quello cinese su Taiwan, l’Occidente, Europa in primis, è disarmato ideologicamente e quindi politicamente e infine militarmente. Ribadiamo che il problema è che con la fine della Guerra Fredda si è radicata in Europa e negli Stati Uniti l’illusione che la crescita esponenziale delle economie mondiali integrate, la globalizzazione appunto, riducesse al minimo le possibilità di conflitti militari. Di fatto, si è rivelata del tutto sbagliata, meccanicistica, l’analisi semplicistica che vuole che il motore delle guerre e dei conflitti sia tutta rinchiusa nei conflitti economici o nel contrasto ideologico con un comunismo ormai fallito miseramente.
Esempio lampante di questa visione meccanicistica e astratta è stata la decisione della Ue nel 2000 di allargarsi a Est includendo tutti i paesi europei del patto di Varsavia, con l’esclusione di Ucraina, Moldova e Bielorussia. Salvo poi scoprire tardivamente che il blocco di Visegrád in realtà non condivide principi fondamentali dell’Europa, pur essendo profondamente integrato con la sua economia. Non solo, accorgendosi solo oggi che un suo membro, l’Ungheria di Orbán, sta dalla parte di Putin, non di Washington o di Bruxelles. E Orbán ha diritto di veto nel Consiglio europeo.
L’Occidente paga il prezzo enorme del fallimento epocale di una sua ideologia utopistica del sovranazionale e del multinazionale come garanzia di pace, della funzione salvifica della ibridazione della integrazione di usi e costumi, del multiculturalismo. Invece, caduta rovinosamente l’URSS, l’agenda politica e i conflitti militari sono sempre più stati determinati da conflitti il cui nerbo era ed è il nazionalismo.
Eliminati i residui regimi di fedeltà post-sovietica, l’Europa ha creduto di poter costruire un nuovo ordine nel vecchio continente tutto imperniato su moneta e mercati unici, ma tanto privo di una visione politica e strategica che l’Ue di tutto si è voluta dotare, tranne che di una forza militare.
Poi, con l’11 settembre 2001, l’illusione dell’Occidente è stata che solo un avversario ormai era da sconfiggere: il terrorismo islamico. Ma, di nuovo, anche in questo particolare contesto, sia in Afghanistan sia in Iraq sia in Asia e in Africa la lotta ai jihadisti è stata condotta prescindendo totalmente dalle radici etniche e nazionali degli avversari, degli stessi jihadisti. Da qui il fallimento. Neanche è servito da lezione l’adesione in blocco nel 2014 delle tribù sunnite irachene all’Isis, motivata dalla volontà del nazionalismo arabo di contrastare l’egemonia dittatoriale dell’Iran sciita.
Si potrebbero fare altri esempi ma quello che interessa è ribadire ancora una volta che la debolezza dell’Occidente, e la forza che essa consegna a Putin così come a XI Jinping, deriva essenzialmente dal disarmo politico, ideologico e culturale a fronte dell’emergere impetuoso di nazionalismi con una larga base di consenso popolare.
Un ritardo drammatico che in Europa ha già prodotto danni immensi. Che cosa è stata in fondo la Brexit, se non l’affermarsi in un nazionalismo storico britannico sprezzante verso un Continente burocratico e invasivo? Ed è un caso che l’unificazione politica dell’Europa nel 1954, e poi nel 2004, sia fallita a causa del rifiuto del nazionalismo francese di accettare uno Stato Federale europeo?
Il dramma è che il disarmo dell’Occidente sull’Ucraina di oggi rischia di essere il drammatico preludio al nuovo conflitto nazionalista che incombe: quello della Cina che intende riannettersi Taiwan.