Nel 1939, sulle pagine del giornale di centro “L’Oeuvre”, Marcel Déat, esponente della destra sociale francese che finirà collaborazionista filonazista, poneva retoricamente il quesito se avesse senso «morire per Danzica».
Allora, esattamente come oggi per il Donbass, ci si illudeva che le pretese di Adolf Hitler si limitassero a un corridoio conficcato in territorio tedesco ma sotto il governo polacco. Hitler invase tutta la Polonia, così come l’anno prima si era annesso l’Austria e poi la Cecoslovacchia dopo aver all’inizio preteso “solo” i Sudeti, anch’essi enclave tedesca.
La storia purtroppo non sempre si ripete sotto forma di farsa e i meccanismi psicologici delle menti criminali tendono a presentare tratti comuni.
Sappiamo quali fossero i disegni di Hitler e di come avesse pianificato di creare la fortezza Europa e di come solo il sacrificio di milioni di russi, americani e inglesi abbia evitato un destino tragico al nostro continente. Ma oggi si deve morire per Kiev?
Ci possiamo illudere che Putin sia diverso, ma intanto non vi è dubbio quale sia il bersaglio oltre ai paesi che nei suoi piani dovrebbero costituire la cintura protettiva della Russia: lo Stato di diritto.
Non è una mera affermazione da giuristi fuori dal mondo, preoccupati del misero orticello intellettuale: tutto ciò che accomuna le più grandi minacce alla democrazia è la concezione del superamento di quei principi (divisione dei poteri, uguaglianza, checks and balance, giusto processo, principio di legalità) che costituiscono l’essenza dello Stato liberale.
Non è un caso che, come Stalin ai tempi delle purghe di un secolo fa, anche adesso si cerchi di reprimere il dissenso ricorrendo alla tragica parodia di processi che con gli istituti del vero diritto occidentale hanno in comune solo il nome.
La legalità formale è solo un involucro con cui svuotare di senso il rispetto delle garanzie fondamentali e dei principi che regolano le libertà individuali.
Putin, esattamente come il suo modello ideale, ricorre a processi farsa per reprimere il dissenso, senza disdegnare le vie di fatto all’occorrenza (vedasi i tentativi di avvelenamento più o meno riusciti degli oppositori).
Il caso più esemplare è quello di Alexej Navalny, avvocato e fondatore del Partito del Progresso, bollato diffamatoriamente come un movimento neo-fascista, guarda caso la stessa etichetta affibbiata ai resistenti ucraini
Peraltro la stessa accusa di nazismo è stata rivolta a Vladimir Zelensky, il capo dello Stato ucraino, ex attore, ebreo discendente di una famiglia sterminata dal nazismo. Navalny ha subito decine di processi, è detenuto ed è stato bersaglio di un tentativo di avvelenamento.
Eppure non stiamo parlando di un ricco autocrate, di un magnate della stampa, ma di un legale che come Ralph Nader, il difensore dei diritti dei consumatori americani, comprando piccole partecipazioni azionarie nelle partecipate pubbliche interviene nelle assemblee, pone fastidiose domande. Parliamo di un militante democratico che riesce a far circolare sul web inchieste come quelle sul villone di Putin. E per questo dà fastidio e diviene un bersaglio.
Ma il caso Navalny è anche un eccellente esempio della volontà di Putin, e di quelli come lui, di distruggere gli avversari tramite gli strumenti della democrazia liberale inquinati col veleno della mistificazione e della falsa propaganda.
Solo tra il 2012 e il 2014, l’avvocato di San Pietroburgo ha subito sette processi ed è stato condannato più volte. Ma altrettante volte tali sentenze sono state oggetto dell’intervento della Corte europea dei diritti umani: ad esempio quella con cui Navalny veniva subdolamente condannato per un accusa di frode fiscale, un classico di ogni regime populista-dittatoriale, tramite un’interpretazione estensiva e innovativa di una norma del codice di penale che inquadrava una procedura di ordinaria detrazione fiscale come un reato.
Il pretesto era costituito dal fatto che, insieme con il fratello, Navalny gestiva un servizio postale per due grandi aziende frazionandole tra più società per motivi fiscali e probabilmente per sottrarsi al sabotaggio dello Stato.
Il processo fu instaurato dopo la denuncia presentata da un dirigente di una delle aziende clienti, il quale lamentò una presunta truffa per essergli stato celato il subappalto e si concluse con la condanna dei due fratelli a tre anni e mezzo di reclusione per i reati di frode commerciale e di riciclaggio di denaro del Codice penale russo, avendo «ricevuto indebitamente circa 26 milioni di rubli dalla società Yves Rocher Vostok e altri 4 milioni di rubli dalla società MPK» per le quali svolgeva il servizio.
La condanna è stata annullata dalla Corte europea di Strasburgo per violazione del principio di legalità ai sensi dell’art. 7 Convenzione europea.
In sostanza i due imputati erano stati condannati sulla base di una libera interpretazione della norma sul reato di frode commerciale operata per la prima volta da una corte russa stravolgendo il concetto di abuso di fiducia, in quanto nessun danno concreto era derivato agli utenti dalla condotta degli imputati né alcuna norma vietava espressamente la struttura societaria da loro adottata.
Fallito il tentativo di eliminazione per via giudiziaria, Putin ha pensato di ricorrere alle maniere forti avvelenando Navalny prima e poi arrestandolo: nuovamente è intervenuta la Corte europea ordinando alla Russia in via di urgenza di liberare provvisoriamente Navalny per sottrarlo a un pregiudizio irreparabile. Ovviamente Putin ha fatto spallucce, ma Navalny è ancora vivo e riesce a far uscire dal carcere i suoi editoriali come quello sull’invasione dell’Ucraina: «Un tentativo di Putin per far dimenticare le sue ruberie».
Dunque in un Occidente che rifugge il rischio del ricorso alle armi può essere lo Stato di diritto a fungere da deterrente? Ad esempio, ipotizzando l’incriminazione del leader russo per crimini contro l’umanità, stendendo intorno alla Russia una cortina sanitaria d’isolamento legale oltre che finanziaria.
Quello che sta avvenendo e i precedenti come quelli di Navalny dimostrano la necessità che l’Occidente mantenga intatto il suo ultimo vero tratto distintivo, quel complesso di norme e di principi che tutelano la divisione dei poteri, il principio di legalità, il giusto processo, l’autonomia della magistratura e l’indipendenza dei giudici. In una parola: la democrazia che non ha nulla a che vedere con il populismo giustizialista, spacciato per governo del popolo.
Non è un compito facile: come bene ha osservato Sergio Fabbrini in un recente editoriale, lo Stato di diritto ha feroci nemici anche all’interno dell’Unione europea dove paesi come Ungheria e Polonia sono stati sanzionati reiteratamente dalla Corte di Strasburgo e di recente dalla Corte di Giustizia per aver violato il principio di autonomia della magistratura, introducendo norme per consentire al governo di controllare le nomine dei giudici.
Ciò che è notevole è il contenuto di due sentenze emesse entrambe il 16 Febbraio scorso dalla Corte del Lussemburgo (Ungheria/Parlamento e Consiglio, C-156/21, Polonia/Parlamento e Consiglio, C-157/21 con cui ha autorizzato la Commissione europea a non trasferire i fondi previsti dai piani economici di assistenza come Next Generation ai paesi che non rispettano la Rule of the Law. È la prima volta che un organismo giurisdizionale abbina il concetto di solidarietà economica e di corretto uso delle comuni risorse economiche al pieno rispetto dello Stato di diritto.
In un mondo che ha perso la fede nella religione resiste solo quella laica del diritto, ed ecco perché la guerra d’Ucraina ci riguarda tutti: perché essa è anche l’assalto allo Stato di diritto e alla libertà dell’Occidente.