«Vi ricordate quando potevano uscire alla televisione le sceme?»: Checco Zalone arriva alle nove e trentotto, quando la scaletta è saltata. Il monologo dolente se lo conosci non riesci comunque a evitarlo, se lo conosci non solo ti uccide ma nel farlo sfora pure.
Il monologo dolente che ha fatto slittare una pubblicità e restringere il blocco successivo, che finisce con quello che tecnicamente si chiama «tassativo», il blocco pubblicitario che deve finire per forza entro le dieci. Insomma qualcosa tocca tagliare, e quindi Emma canterà dopo (se è una donna a far slittare nella scaletta una donna, è comunque sessismo e patriarcato?).
Zalone entra e fa un numero favolosamente novecentesco in cui prende in giro gli intellettuali che vanno coi trans («sai la gente colta è la prima che si volta»), nel festival che mette in quota erudita un uomo travestito da donna chiamandolo «coconduttrice». Non sto spiegando quale fosse stato il monologo dolente a chi ieri sera fosse svenuto dalla noia, lo so. È che prima devo parlare del naturale erede di Forlani, cioè Amadeus.
Riepiloghiamo. Prima Amadeus fa il Cencelli delle vallette (che abbiamo iniziato a chiamare coconduttrici, tipo gli operatori ecologici): la nera, la travestita, le ancora belle ma mica ventenni ché il postmodernismo poi ti cazzia.
La prima sera apre il concorso con uno mezzo nudo che si rovescia addosso un’acquasantiera. La mattina dopo – ieri – qualcuno gli riporta le rimostranze di qualche religioso (vorrei pure vedere), e lui, precisando d’essere credente, d’andare a messa persino a Sanremo, dice che, se ci permettiamo di dire che quella di Lauro è una pecionata fatta per épater, «teniamo i giovani lontani non solo dal festival ma anche dalla Chiesa» (poi gli resta solo la Playstation). A quel punto interviene il magnifico Coletta che, a gara di forlanismo, nega che se ti rovesci addosso un’acquasantiera tu abbia smanie blasfeme, o per dirla in colettese «che il linguaggio di Lauro ammetta un significante che possiamo riportare noi a interpretazioni automatiche ma non è detto che sia così».
La sera, Amedeo Forlani fa fare alla coconduttrice (vabbè) nera uno sproloquio di venti minuti (che manda a meretrici la scaletta, e immagino il buonumore di Emma che canta tre quarti d’ora dopo l’orario previsto: se non riuscite a immaginarvi con venti centimetri di tacchi e la tensione per un’esibizione che viene differita di tre quarti d’ora, pensatevi in attesa fuori da una sala operatoria). Un monologo che pare riassunto in «Andy Warhol diceva: quindici minuti di catastrofe nella vita prima o poi arrivano», battuta che Checco Zalone farà due ore dopo (che cos’è il genio: sembrare uno che prende per il culo la catastrofe di due ore prima in un testo preparato un mese fa).
Lo sproloquio dovrebbe essere (il condizionale è perché, quando il tutto è costruito malino e tu sei negatissima a parlare in pubblico, il bersaglio va fuori fuoco) contro il razzismo. Include lettura di Tahar Ben Jelloun (la ragazza ha un dottorato, ci viene ripetuto varie volte facendoci ogni volta chiedere: ma allora perché fa così fatica a leggere un testo semplice?), giacché gli anni Novanta non finiscono mai mai mai. Più che altro lo sproloquio è basato su tre tweet maleducati. Un modulo così noioso che ha ammazzato un monologo di Ricky Gervais (ma, d’altra parte, se neanche Gervais ha un autore che gli dica «ma chi se ne frega se t’insultano su Twitter», ci si può aspettare che ce l’abbia un’esordiente non particolarmente brillante?). Anche l’anno scorso ci fu la dolenza «m’hanno insultata sui social» di Matilda De Angelis, ma avvenne altrove: a Sanremo la ragazza fu brillante come decide d’esserlo una ragazza intelligente che voglia sfruttare l’occasione di quel palco.
Naturalmente tutte queste mie notazioni sono irrilevanti; lo sono per loro natura, ma soprattutto lo sono perché la nera sul palco che dice che il razzismo è brutto non serve a fare una cosa fatta bene: serve a fare una cosa che compiaccia i buoni (i buoni non pretendono mai una qualità minima, solo che ci sia buona volontà: è un eterno asilo Montessori). C’era quella vecchia battuta: il razzismo sarà finito quando si potrà dire che un nero è uno stronzo. Quando poco dopo (più adiacente di quanto dovrebbe: i venti minuti dovevano essere otto, ma quando non sei esattamente Monica Vitti ti emozioni molto e ti attieni ai tempi di scena poco) arriva Checco Zalone, e si lamenta che tra le donne di quest’edizione manchino le sceme, è il primo autentico antirazzista su quel palco.
E a quel punto Zalone fa agli italiani quel che Dave Chappelle ha fatto agli americani: dimostrar loro che si può ridere di tutto. I postmodernisti di qui la prendono male quanto quelli di lì. Quale che sia la loro immedesimazione rispetto al suo testo: l’oggetto, la marchetta transessuale; o il bersaglio, il professore di greco antico che la mattina spiega e «la sera poi si piega». (Quale sarà, due ore dopo, il riferimento che coglieranno nell’avere Zalone chiamato il suo virologo «Oronzo»: Lino Banfi o Temptation Island?).
Ma, poiché sono la Cassandra che vi potete permettere, so che Amedeo Forlani oggi, giovedì, in conferenza stampa si sentirà rinfacciare che il popolo delle consonanti è offeso, e risponderà che se diciamo queste cose teniamo lontani i giovani da Sanremo ma anche dalla legge Zan (l’ontologia dei significanti di Coletta non riesco a predirla con esattezza, ma la pregusto).
Dev’essere terribile vivere la vita di chi pensa che se una cosa gli sta a cuore non se ne possa ridere: le cose che ci stanno a cuore sono quelle di cui dà più gusto ridere. Io per esempio canticchio da un mese Love, quella canzone di Marracash che ricorda i suoi inizi in periferia, gli amici morti, «Per gli amici veri che ho, per tutte le storie che so, pregherò per chi nuota ancora nei guai, chi vuole scappare e non può, per tutte le strade in cui sto, le donne che ho avuto e che avrò», e proprio per questo mi ha fatto scompisciare il secondo intervento di Zalone, la canzone di Ragadi, rapper dolente che rievoca il dramma di quand’era «poco ricco», il dolore che risale mentre scende dalla barca, «quando scendo do la mancia allo sceicco, mamma zio com’ero poco ricco», la madre com’era prima che lui la ricoprisse di dobloni «devastata dopo yoga la mattina, dentro casa una sola filippina», il padre che frequentava mignotte orrende, «quelle a venti euro, basse con la panza», non come adesso che «va a puttane dentro il bosco verticale».
E con l’identico tono con cui Marracash dedica la sua dolenza «a chi vuole scappare e non può», lui si rivolge alla balconata e fa la sua dedica: «Al bonus facciate, ai conduttori di programmi su Rai che fanno le televendite: buon pnrr a tutti». E, là dove Marracash giura «Vuitton e Prada non contan nada se tu non sei con me», Zalone rievoca il dolore di «quando cammini per strada vedi l’insegni di Prada ma senti una voce amara che ti dice: Zara». Secondo me Marracash ha riso, secondo me gli propone un duetto: vi ricordate quando, invece di offendersi con apposito cancelletto, Andreotti chiedeva l’originale delle vignette?