Se posso darvi un consiglio: cercate di tenervi per voi i vostri pareri, a trent’anni; altrimenti fate la mia fine: passate i cinquanta a scusarvene. Passate i cinquanta ad assistere a dimostrazioni di quanto non capivate niente di niente.
Per dire: ieri sera, a un’ora non tarda della prima serata del festival di Sanremo 2022, è salito sul palco l’innominato. L’innominato, di cui per rispetto della letteratura ma soprattutto perché mi vergogno della me trentenne non faremo il nome, è senza discussioni il più bravo in Italia a salire su un palco e, solo essendoci, cambiare l’umore della platea. Naturalmente a trent’anni mi faceva schifo. Ma chi è questo che arriva e porta i guizzi, porta le idee, porta la voglia di vivere e lo scazzo a volte nella stessa battuta, ma che vuole, ma che noia. Mi scuso per la me trentenne. A sua discolpa: era trentenne.
«Io sono la vostra terza dose», dice l’innominato, che sta in effetti su quel palco per il terzo Sanremo, sebbene per una sera sola, mentre Amadeus Tramaglino si accarezza soddisfatto i capponi.
A proposito di gente che s’accarezza i capponi: una mezz’ora prima, il festival s’era aperto con una delle esibizioni più trash ch’io ricordi. Non nello slittamento semantico con cui viene usata la parola in Italia, quello di «volgare» (magari: la volgarità almeno è un carattere). Nel senso tecnico: emulazione fallita di modello alto.
Non ho niente contro il trash, mi piace Las Vegas più di Venezia. Però qualcuno dovrà dire ad Achille Lauro che sono esistiti Billy Idol, Iggy Pop, persino Jim Morrison, che per carità puoi salire a torso nudo e pantaloni di pelle, accarezzarti lascivo i cabbasisi mentre fai la copia della tua stessa canzone di tre anni fa, rovesciarti l’acquasantiera addosso con la voluttà con cui Madonna mescolava un pompino e un Cristo nero trentatré anni fa (pure l’Harlem Gospel Choir ti sei portato: una specie di Postalmarket delle idee derivative); però, piccino, tutto questo non puoi farlo con l’aria di chi stia inventando qualcosa. (Magari sono io che proietto, eh, aiutata dalle interviste in cui Achille Lauro parla di sé stesso come «uno che divide», corrente albapariettista).
E Coletta?, diranno i miei piccoli lettori, memori di come l’anno scorso il direttore di Rai 1 fosse stato l’eroe del Sanremo mattutino, quella conferenza stampa in cui sembrava un incrocio tra il personaggio di Giovanna Ralli in C’eravamo tanto amati, quella che non poteva mangiare idrocarburi, e quello di Ingrid Bergman in Assassinio sull’Orient Express, alla quale Poirot diceva «Non pronuncia bene parole come “vestaglia” ma capisce “emolumento”».
Quest’anno Coletta è anche star del serale (ma non quanto avrei voluto, poi ci torniamo), ma la mattina è sempre il suo regno. Elenco non esaustivo di solo ieri mattina.
A proposito di Amadeus e dell’innominato: «Questo linguaggio che si dicono l’uno con l’altro, Freud direbbe il famoso motto di spirito, tu non sai in realtà bene qual è il fil rouge tra i due, la gavetta, le estati insieme, ma c’è questo motto di spirito che non è dato ontologicamente all’occhio» (chissà cosa pensa voglia dire «ontologicamente»). «Ci sarà finalmente questa terza parete che potrà percepire il gioco dei detti, dei non detti» (temo intendesse la quarta: l’esame di storia dello spettacolo glielo facciamo dare nella prossima sessione).
Ai giornalisti: «Vorrei che le vostre penne si connaturasse [sì, singolare] a questo sentimento di letizia». «Prendiamoci questa quota di sorrisi di cui nutrirsi».
Le mie uscite preferite però sono quando l’aspirante citatore di Freud si lascia andare ai raddoppi consonantici e agli strascinamenti vocalici di Isabella De Bernardi, la stupenda fidanzata di Verdone in Un sacco bello. Io Stefano Coletta lo amo sempre, amo i suoi «errore metodologggico» e i suoi «ce ne sono alcune che balleremo perché anche il nostro corpo è stato intrappolato in una prigggionia di movimento»; ma specialmente lo amo quando dice «proprio», che pronuncia non esattamente come Carmelo Bene.
I testi delle canzoni in concorso? «Ho ritrovato pròpo il senso della vita». Le coconduttrici? «Cinque donne importanti, ognuna con il pròpo portato». La filosofia spicciola? «Vorrei che dietro la consapevolezza di ognuno di noi ci fosse pròpo una volontà di ognuno di noi».
C’è stato un momento, qualche settimana fa, tra un’indiscrezione sanremese e un’altra (le indiscrezioni sanremesi sono come i fidanzati dei vent’anni: certezze per due giorni, che al terzo diventano «non viene più, è in America e con la pandemia non gli va di tornare»), c’è stato un momento in cui ho visto una cosa che in tv si vede pochissimo: un’idea.
Era fatta così. L’innominato, dicevano, non si decideva, faccio solo una puntata, no le faccio tutte, no non vengo. Finché, l’idea. Ci mettiamo io e Coletta in prima fila, dice, e commentiamo la serata, tipo Muppets. Il tizio che me l’ha raccontato credeva fosse caduta la linea, ma era solo che non stavo respirando, immobile come quando hai paura di svegliarti da un sogno troppo bello. E infatti poi non è successo, chissà perché.
L’innominato sa riconoscere un altro grande uomo di spettacolo, quando lo incontra. E infatti ieri è entrato, con un termometro, l’ha posato sulla fronte di Coletta, «c’hai 35, dovresti essere morto», e poi gli ha fatto mettere la mascherina con le labbra rosse e baciare Amadeus. L’innominato lo sa, che Coletta è una grande risorsa per il festival, per la Rai, per il paese. Innominato, non è che puoi fermarti in riviera? Ti teniamo due posti in prima fila. Per favore?