«Il mio stesso sesso, spero, mi scuserà», scriveva Mary Wollstonecraft duecentotrent’anni fa, «se le tratto come creature razionali, invece di lusingare le loro affascinanti grazie, e guardarle come se fossero in uno stato di perpetua infanzia, incapaci di reggersi in piedi da sole». E all’epoca nessuno ti festeggiava, nessuno polemizzava, nessuno ti portava le mimose, nessuno reclamava che anche con le tette potessi fare il soldato: beate loro.
Ieri è venuta a trovarmi la me trentenne. Era noiosa quanto la ricordavo: se mi conoscete, sapete quanto spesso dica che, se vedessi per strada la me trentenne, cambierei marciapiedi. Era ovunque: su Instagram, su Twitter, su Facebook. Tutta roba che quand’avevo trent’anni non c’era: meno male, c’era meno pubblico per il mio essere una coperta bagnata.
La me trentenne era uguale a tutte le trentenni che ieri hanno passato la giornata a lamentarsi di ciò che veniva detto, scritto, sospirato per l’otto marzo. Ricordo ancora la sera in cui mi resi conto che esisteva l’otto marzo. Ero in un ristorante pieno di tavolate di sole donne sovreccitate. Scoprii in una serata sola interi universi. Esisteva gente che festeggiava le feste comandate. Esistevano tizie che le amiche le vedevano in una data precisa. Esistevano le mimose. Avevo più o meno trent’anni.
Prima e dopo quella sera, l’otto marzo non è mai esistito. Se non per dirsi vediamoci martedì, anzi meglio mercoledì ché martedì è l’otto marzo e il posto dove vogliamo cenare sarà pieno di tizie per cui cenare fuori è un avvenimento speciale.
Però, sebbene non esistessero i social e gli altrui pareri sull’otto marzo al massimo stessero sui giornali (sui quali spesso c’era anche un parere mio: se mi pagate, mi faccio venire in mente opinioni persino su san Valentino), la me trentenne aveva tutte le insofferenze, i fastidi mal riposti, la convinzione che dettagli irrilevanti fossero inaccettabili che hanno le trentenni che ieri mattina hanno cominciato prestissimo a inveire contro i cliché femminili.
Giorni fa, su Twitter girava lo screenshot d’un post di Reddit. L’io narrante era un uomo americano che raccontava che lui e la moglie guadagnano molto, lei ora era rimasta incinta, e gli aveva fatto il conto di quanti soldi ci avrebbe rimesso con la gravidanza, e voleva cinquantamila dollari per partorire. L’ho ritwittato dicendo che era la cosa più femminista che avessi mai letto: hai voglia a parlare di parità, finché a vomitare e ad avere le caviglie gonfie per mesi, e a farsi squarciare la vagina partorendo, sono inevitabilmente le donne.
Poiché non ho la pazienza dei trent’anni, di quello come degli altri miei tweet erano chiusi i commenti. Quindi, a prendersi gli insulti dell’invasata di turno è stata un’amica che aveva condiviso il mio tweet. L’invasata di turno berciava che io prendo per femminista Reddit invece di esigere lo stato sociale, e io pensavo ai gruppi di mamme che su Facebook si consigliano come farsi certificare la gravidanza a rischio, e poi dimettersi entro l’anno di vita del bambino e avere la Naspi, e insomma in tutto stare a casa almeno tre anni spesate dalle mie tasse, e pensavo che lo stato sociale è una cosa bellissima, se sei quella parte di popolazione che viene pagata e non quella che paga.
Ma soprattutto pensavo: ma benedetta ragazza, ma che ci fai con lo stato sociale se comunque la gravidanza devi smazzartela tu? Se hanno trovato una cura per le mancate erezioni ma non una che elimini le mestruazioni? Se le donne si sentono incomplete se non allattano rendendo inutile qualunque idea di congedo di paternità? (Lo so: è transfobico dire che i padri non hanno le tette, abbiate pazienza, sono del Novecento, quel secolo in cui eravamo mammiferi).
Insomma ieri mattina Fabio Fazio ha l’ardire di twittare, a proposito della festa della donna, «La donna è colei che dà la vita. La guerra è l’esatto contrario». Apriti cielo. Un pieno di trentenni smaniose: come si permette di sminuire me che non ho figli, come osa ridurci alla funzione riproduttiva.
La me trentenne avrebbe fatto uguale. La me cinquantenne pensa: ma, benedette ragazze, è l’unica differenza tra i generi sessuali. Uno sanguina tutti i mesi e a volte partorisce, uno no.
Cos’altro renderebbe metà della popolazione diversa dall’altra metà (e meritevole d’essere festeggiata)? La spiccata sensibilità? La capacità di distinguere il malva dal pervinca? La sfiga di non poter occultare i doppi menti con la barba?
Lo dico da donna che, pur di non avere figli, avrebbe fatto e ha fatto qualunque cosa, lo dico da donna che non avrebbe mai voluto ritrovarsi un estraneo in casa, lo dico da donna che ritiene l’orologio biologico sia una leggenda e la maternità sia una scelta di risulta destinata a sparire con le maggiori opportunità che il mondo offrirà: riprodursi è l’unica caratteristica precipua femminile. Riprodursi e i suoi annessi, dall’endometriosi alle tette (che non mi stanno nelle camicette, impedendomi di dimenticarmi che sono una donna).
Questo rende le donne che non si sono riprodotte meno rappresentative del genere femminile? Forse sì, ma chi se ne frega di essere rappresentative. Sono una bolognese cui non importa nulla dei tortellini fatti a mano: volete che m’importi di non aver utilizzato l’utero per ciò cui era preposto?
Il mio stesso sesso mi scuserà, spero, se credo nel reale e nel razionale, e non riesco a negare che il mio stesso sesso sia caratterizzato da mansioni che io non ho fatto mie. Il mio stesso sesso mi perdonerà, spero, se ne approfitto per non andare in guerra, o anche solo a lavorare in un cantiere: sanguinare tutti i mesi comporterà pure dei vantaggi; invito tutte le appartenenti al mio stesso sesso ad approfittarne, invece d’indignarsi.