“La paura rende complici!” Volodymyr Zelensky ha lanciato questo anatema terribile all’Unione Europea. Un’accusa di viltà e connivenza con l’aggressore russo che è difficile negare a fronte delle decine di miliardi di dollari che ancora nei giorni della guerra e del massacro del popolo ucraino l’Europa versa nelle mani di Vladimir Putin per acquistare gas, petrolio e carbone (!) e che ha appena deciso, nonostante le suppliche ucraine, di continuare a versare. Un accusa ben meritata, scottante e cogente che impone di guardare alto, in prospettiva storica e di aprire il vero tema dell’Europa di oggi a partire da quattro elementi:
- La necessità di prendere atto del fallimento del percorso verso gli Stati Uniti d’Europa, fallimento fattuale e già ampiamente consumato nei fatti sin dal 2005, non certo per ragioni ideologiche, ma per volontà espressa dal popolo francese e da quello olandese.
- L’obbligo di prendere atto che tutti gli Stati Europei, Germania, Francia e Olanda in testa, antepongono nei fatti gli interessi strategici e politici nazionali a quelli dell’Unione in una sorta di sovranismo diffuso.
- L’ammissione, per contro, del successo indubitabile della integrazione economica, monetaria e di mercato, da sviluppare e da cui non recedere assolutamente.
- L’impellente necessità quindi di separare le istituzioni comunitarie a cui gli Stati hanno ceduto sovranità sul terreno economico, di mercato e monetario, da un nuovo assetto politico istituzionale non più a 27, ma dei pochi Stati geopoliticamente omogenei che elaborino, gestiscano e pratichino strategie politiche di lungo termine in una prospettiva, finalmente, di grande potenza quantomeno regionale, se non planetaria.
Per essere più chiari: è impellente che il vecchio continente recuperi la strategia di Charles de Gaulle dell’Europa delle Patrie, a suo tempo rifiutata, ma in qualche modo aggiornata dalla proposta di Jacques Delors di un Europa “a cerchi concentrici” con un forte, e piccolo, nucleo politico omogeneo, protagonista sulla scena mondiale anche dal punto di vista militare e geostrategico che intessa e rafforzi legami di sovranità condivisa sul terreno economico, monetario e di mercato con gli altri Stati del continente, in una naturale e ammessa differenziazione geopolitica.
Strategia di Delors abbandonata nel Consiglio Europeo di Nizza del dicembre 2000 che decise l’allargamento a 27 nell’irenistica convinzione di una omogeneizzazione politica di Stati dalle vicende più che disomogenee, meccanicamente conseguente alla unificazione dei mercati. Uno dei tanti, gravissimi, errori prodotti dal totem ideologico della globalizzazione.
Di fatto, è indispensabile prendere atto del fallimento della strategia tedesco-europea del Wandel durch Handel, del cambiamento attraverso il commercio, massimo esponente Angela Merkel, e della impellente necessità di un nuovo, centro decisionale politico, di un cervello politico europeo strutturato in un nuovo assetto istituzionale.
“Elogio del sovranismo. Per un’Europa delle patrie”, di Carlo Panella, Piemme, 2022, pagine 190, euro 11,90
La guerra in Ucraina e il monito di Zelensky ci obbligano a prendere atto degli inammissibili limiti politici e geostrategici della bizantina struttura istituzionale europea: un Parlamento che non gode di iniziativa legislativa, poteri tutti concentrati nella Commissione: iniziativa legislativa ma anche tutti i poteri esecutivi su temi limitati (non quindi sulla politica estera, sulla Difesa e su tutti i temi “regaliens” come si dice in Francia, di poteri politici essenziali dello Stato) e un Consiglio Europeo che definisce le priorità e gli orientamenti politici generali dell’Ue, tradizionalmente adottando conclusioni, che non negozia né adotta atti legislativi dell’Ue.
Un groviglio di poteri efficiente sul terreno economico e di mercato ma del tutto confuso e inconcludente su tutti i temi politici cogenti, oggi l’Ucraina, ma ieri e oggi l’immigrazione irregolare, la Libia e la politica energetica, la politica militare, la Cina e Taiwan, ecc.
Un assetto istituzionale improduttivo, come si vede oggi, figlio, non va dimenticato, del fallimento conclamato nel 2005 del progetto di definire una Costituzione Europea e quindi i passi decisivi per arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Quel fallimento, provocato, anche questo non va dimenticato, dalla bocciatura dei referendum popolari in Francia e in Olanda, è stato rabberciato dal Trattato di Lisbona. Trattato che ha ben meritato, va detto, quanto a favorire una eccellente integrazione economica europea (che ha anche molte ombre per i ceti sociali più sfavoriti), ma che ha pienamente fallito nel rafforzare un protagonismo politico della Ue, oggi inesistente sulla platea mondiale.
È dunque indispensabile intraprendere in Europa un nuovo percorso istituzionale difficile, irto di difficoltà che non può essere affrontato e risolto come propone Enrico Letta con una Convenzione che promuova la semplice riforma del criterio dell’unanimità e dei veti nazionali delle istituzioni esistenti. Queste sono proposte procedural-tecniche che evitano il nodo politico che, lo ripetiamo, va affrontato a monte: prendere atto con dichiarata chiarezza della impraticabilità del progetto pur nobile degli Stati Uniti d’Europa e quindi progettare un assetto istituzionale di chiara e netta marca confederale.
Naturalmente, questo progetto necessita il più possibile di uno spirito bipartisan che esca dalla stucchevole contrapposizione tra sovranisti e europeisti ma anche che smascheri il facile slogan del “sovranismo europeo” di Emmanuel Macron, il primo a imporre il più rigido e egoistico sovranismo francese su tutti i dossier, per non parlare dei disastri prodotti dal suo appoggio a Khalifa Haftar in Libia a tutto vantaggio e in alleanza sotterranea con Vladimir Putin, che ne ha approfittato per impiantare le proprie basi militari navali e aeree russe nel cuore del Mediterraneo.
Questa necessità impellente non proviene, come si dice troppo spesso, da motivazioni ideologiche, da quel sovranismo che in Italia è criminalizzato, là dove tutti gli Stati europei applicano rigidamente politiche e strategie sovraniste. È invece conseguenza obbligata del fallimento politico dell’Europa a fronte della crisi ucraina rinfacciato giustamente da Volodymyr Zelensky, delle decine di miliardi di euro che il Consiglio Europeo, Germania in testa, conferma oggi di dover versare a Vladimir Putin ancora per i prossimi due-tre anni, prima di saper rimediare a un suo formidabile, inescusabile errore politico strategico sulle fonti di energia di cui Nord Stream 1 e 2 sono l’emblema.
Questo si è visto, nel corso di una discussione a Bruxelles dei leader europei che ancora una volta, l’ennesima, si sono divisi in tre, quattro opzioni divergenti sul tema cruciale della gestione delle fonti energetiche in un clima surreale. Una sola cosa risulta dai verbali di quella riunione: sono state burocraticamente rigettate le istanze di chi, Mario Draghi in testa, con Pedro Sánchez (Macron più defilato), ha preso atto che l’invasione russa dell’Ucraina ha una valenza epocale, che impone una risposta unitaria, non solo un nuovo Recovery Fund sull’energia, ma soprattutto l’obbligo di mettere una visione politica continentale di prospettiva a comando e guida delle scelte economiche.
Un rifiuto di andare oltre il bilancino delle regole di bilancio riproposti nel nome della grettezza sovranista e ragionieresca da un Mark Rutte che rifiuta la proposta dei Paesi mediterranei di un tetto al prezzo del metano e del suo sganciamento da quello dell’elettricità perché è forte dei propri campi metaniferi e non vuol perdere il vantaggio politico ed economico del controllo dello Stato olandese sul sull’ICE Endex, che gestisce lo scambio dei contratti sul metano, all’interno del Title Transfer Facility (TTF), il punto di scambio virtuale per il gas che funge da hub per l’Europa continentale.
Per non parlare del sovranismo di Olaf Scholz che si fa forte, da qui a tre anni, in attesa di una diversificazione delle fonti, dei contratti a prezzo contenuto siglati dalla Germania con Gazprom grazie alla gestione comune di quel Nord Stream 1 che sempre Zelensky ha definito, assieme alla Polonia, «un arma puntata contro di noi».
Il tutto, mentre al solito la Germania acquista a mani basse e giocando al rialzo piattaforme di rigassificazione per il metano che giungerà via mare, e in una logica totalmente concorrenziale con Italia, Spagna e Grecia. Questo è il “sovranismo europeo” praticato.
Ma l’incapacità della Ue di cogliere il “momentum”, di prendere atto che Putin ha chiuso sanguinariamente una intera fase storica e politica dell’Europa non si limita al tema energetico e alla ribadita non capacità di cogliere le enormi valenze strategiche che esso ha.
Grande e roboante è stato l’eco mediatico e retorico nello stesso Consiglio europeo della decisione di adottare lo Strategic Compass e della scelta di “fondare l’esercito europeo”. Ma se si vanno a leggere le carte si scopre l’ennesimo bluff: non subito, ma da qui a due anni l’Europa si doterà di un Forza Armata di soli 5.000 uomini, divisi peraltro per le tre armi. Di fatto, il potenziale bellico della Slovenia… Al di sotto della decenza. Il tutto per una ragione semplicissima che riporta al centro della questione che sollieviamo: l’Unione Europea non è ovviamente strutturata come istituzione per poter definire un comando politico europeo unico per l’impiego della forza militare. Non può e non potrà mai definire nel contorto meccanismo decisionale tra Commissione Europea, Consiglio Europeo, Consiglio dell’Unione Europea e Parlamento Europeo un “commander in chief” che si rapporti in modo coordinato politicamente e operativamente con le forze NATO, che decida dove intervenire, le regole di ingaggio e che venga autorizzato da un Parlamento ad operare (ovviamente il Parlamento europeo, che non ha neanche potestà di iniziativa legislativa su qualsiasi tema, non ha questo potere).
Dunque, ci si vanta di un “esercito europeo” volutamente così esiguo da poter essere impegnato solo in piccole e marginali crisi regionali, ininfluente per scelta e volontà precise. Un trucco.
Ma non basta. L’Unione Europea ha fatto il capolavoro di presentarsi alla svolta epocale e sanguinaria provocata dall’aggressione russa dell’Ucraina non solo rifiutando il versamento dei 35 miliardi del Recovery Fund alla Polonia, ma anche penalizzandola con un multa di un milione di euro al giorno, 365 milioni l’anno. Sanzione decisa dalla Corte di Giustizia Europea per “violazione dello Stato di Diritto”.
Dunque, l’Unione Europea ha messo all’ordine del giorno una possibile Polexit – ne hanno scritto, preoccupati, sia Lucio Caracciolo su Repubblica che Danilo Taino sul Corriere – proprio quella Polonia che è l’avamposto prezioso e indispensabile dell’Europa – e della NATO – contro la feroce aggressività di Vladimir Putin. Quella stessa Polonia che accoglie oggi più di due milioni di profughi che fuggono dalla devastazione russa. Il tutto, si badi bene, su un tema scabroso: la Corte Costituzionale della Polonia è sovrana o è sottoposta alla sovraordinata Corte di Giustizia Europea?
Sia chiaro, la legge della Polonia sulla magistratura oggetto della vertenza è indifendibile perché effettivamente subordina la magistratura giudicante al controllo dell’esecutivo. Ma il punto non è questo. Non è di merito, ma di attribuzione dei poteri. Il punto è che ha ragione la Polonia nel sostenere che il Trattato di Lisbona non determina una cessione di sovranità dei paesi aderenti tale da definire la subordinazione delle Corti Costituzionali nazionali (e la Corte di Varsavia ha approvato quella infausta legge) alla Corte di Giustizia Europea. Non solo, tale subordinazione si è sviluppata solo motu proprio a partire dagli anni sessanta con una serie di sentenze della Corte di Giustizia Europea ma non è definita da nessun Trattato. Nessun Trattato determina questa esplicita cessione di sovranità nazionale alla Corte di Giustizia che è nata con sostanziali funzioni di arbitrato su temi nettamente definiti dalla cessione di sovranità degli Stati, ma che via via, ha ampliato nella più piena confusione istituzionale i propri poteri tanto da ergersi impropriamente oggi a tutela “dello Stato di diritto” a livello continentale.
Tutela per nulla definita con nettezza da alcun Trattato tanto che, sul tema Giuliano Amato, giudice della Corte Costituzionale e già vicepresidente della fallita Convenzione per la Costituzione Europea, nel 2013 ha scritto: «L’Italia ha accolto il primato del diritto europeo senza aderire all’impostazione che avrebbe fatto di quella comunitaria la norma superiore e di quella statale la norma subalterna all’interno di un unico ordinamento comune (…) nella sfera di competenza che la Costituzione assegna a me, la mia norma prevale sulla tua».
Esempio perfetto della indefinita approssimazione del Trattato di Lisbona che non compone, ma al contrario confonde gli ambiti di sovranità degli Stati e della sovranità da loro delegata alle Istituzioni europee. Ancora e non per ultimo: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è completamente sottratta al balance of power col potere esecutivo e legislativo. Esercita un potere giudiziario autocefalo, non sottoposto ad alcun contrappeso. Il risultato si è visto: ha fiaccato la Polonia proprio nel momento in cui è indispensabile rafforzarne al massimo la forza e la tenuta.
Dunque, ancora una volta, il pessimo risultato della confusione istituzionalizzata nella Ue tra gli ambiti della sovranità nazionale e quella sovranazionale.
Non a caso, Angela Merkel, nel corso dell’infuocato Consiglio Europeo del 21 ottobre 2021 che ha discusso sul dossier polacco, ha colto il vero nodo politico della questione è ha detto: «Dobbiamo discutere di come gli Stati immaginano cosa sia l’Ue, se un Unione sempre più integrata un Unione composta più Stati nazionali». Eccellente lascito.
Se non si affronta subito questo nodo, se non si imbocca la strada netta e chiara di un’Europa confederale il vecchio continente è destinato semplicemente a approfondire la propria irrilevanza.