Ascolto allibito le voci che vengono dal congresso Anpi, una sorta di revival dei “Partigiani della pace”, questa volta al servizio di un russo di destra invece che di un rosso sovietico. Per fortuna Liliana Segre («la resistenza di un popolo invaso è l’esercizio fondamentale di difendere la propria patria: se vogliamo essere fedeli ai nostri valori non è concepibile nessuna equidistanza») e Carlo Smuraglia («si dà una mano a chi è più debole e si batte per una causa giusta») sono ancora tra noi (e loro) a ricordarci cosa pensano le poche persone che guerra, distruzione e lotta armata non l’hanno scelta ma l’hanno vissuta in prima persona.
Con le loro parole e con lo striscione portato da alcune donne in una manifestazione:
«Se la Russia smette di sparare, la guerra finisce. Se l’Ucraina smette di sparare, l’Ucraina finisce», si potrebbe chiudere la disputa sull’opportunità di dare armi all’Ucraina per resistere all’invasione armata in corso.
Questa scelta si fonda sull’evidenza di chi è l’aggressore e chi è l’aggredito, non di chi ha ragione e chi ha torto: è per questo che bisogna dubitare, ma non esitare. Come dice il presidente Macron, prima fermiamo Putin e poi discutiamo e trattiamo.
La capacità della politica deve essere quella di agire appropriatamente, direi perfino con “competenza”, nelle diverse fasi delle crisi, distinguendo fra diversi momenti: nel caso concreto, non mettendo assieme l’aiuto militare immediato con ogni scelta geopolitica, non facendo della fornitura d’armi alla resistenza Ucraina la stessa cosa dell’aumento delle spese militari europee.
Mai come questa volta si è sentita la necessità di una vera Unione Europea e non (solo) di uno spazio economico e monetario comune, lo stesso presidente Zelensky ha progressivamente mutato il proprio linguaggio, passando da Ucraina “membro aspirante della Nato” a “frontiera dell’Europa”. Mai come questa volta il rischio di scambiare il desiderio con la realtà potrebbe portarci tutti a scelte sbagliate che pregiudicherebbero i prossimi decenni, non anni, di integrazione europea.
Al servizio di quale politica europea saranno infatti le aumentate spese militari evocate o combattute in questi giorni, al netto del fatto che tecnicamente non si parla di nulla di nuovo rispetto all’obbligo di spesa pari al 2 per cento del Pil per tutti gli alleati Nato, in vigore dagli anni Cinquanta e ribadito con gli accordi di otto anni fa?
A quella di una Europa a guardia del confine di una nuova cortina di ferro, nella quale l’elmetto militare è calcato anche sul tocco dei giudici, come sbrigativamente spiegato dal presidente polacco Duda invitando il Parlamento Europeo a non scocciare con la corrispondenza delle leggi di ogni Stato al diritto ed inviare invece soldi, armi e soldati alla “prima linea” costituita, guarda caso, dai paesi di Visegrad e dai paesi Baltici “rigoristi” sul bilancio degli altri oppure di quella degli accordi di pace e sicurezza della Conferenza di Helsinki del 1975?
Ci siamo chiesti quale senso preciso avrebbe un incremento della spesa militare europea aggregata, già oggi pari al 1,5% del Pil e superiore ai 200 miliardi all’anno, per contrapporsi all’aggressività di una Russia che spende sì quasi il 4 per cento del proprio Pil ma di fatto meno di 70 miliardi di euro all’anno? Non sarà che una razionalizzazione di questa spesa, magari sviluppando un solo tipo di aereo da combattimento invece di quattro, di cui uno solo europeo, ovvero tenere in linea un solo tipo di carro armato invece di 17, porterebbe a risultati migliori e più rapidi in termini di efficienza e sicurezza sul campo?
E ancora, come è che la Germania (e anche l’Italia) dopo decenni di spesa militare “ridotta” ad una quarantina di miliardi decide di portarla a cento dall’oggi al domani (avendone, a differenza dell’Italia, la possibilità concreta di farlo sia per capacità produttiva che di bilancio), chiudendo in un amen una politica di sostanziale disarmo interno con un corrispettivo fiorente flusso di esportazioni di armi reso possibile dall’ombrello Usa-Nato, quello stesso che Trump voleva chiudere da tempo?
Dove si indirizzerà la potenza industriale tedesca, verso un riarmo in proprio o verso una funzione di fornitore (in concorrenza con gli Usa) degli altri Stati europei nella corsa al riarmo?
Abbiamo fatto – e se sì, quando e dove – una scelta per la Comunità di Difesa Europea stile quella abortita negli anni Cinquanta, ben diversa da quella di un esercito europeo impossibile da realizzarsi senza una Unione politica reale, oppure puntiamo al riarmo dei singoli Stati in uno dei comparti dove la concorrenza fra Stati e all’interno di ogni Stato a tutti i livelli sfocia spesso in vere e proprie guerre commerciali tendenti a uscire dalla metafora con una certa rapidità?
Questa e tante altre domande, dal riassetto del mercato dei fornitori di gas e petrolio sul mercato mondiale alla strategia Usa con gli inglesi ormai “Brexit” di inchiodare l’Europa ad una sorta di Afghanistan in casa propria che dissangui progressivamente la Russia tenendo impegnati soprattutto economicamente gli alleati mentre si sviluppa il “vero” confronto con la Cina, non solo sono legittime, fin da ora, ma sono ineludibili.
La precondizione generale per poter tentare di dare risposte sensate e di prospettiva è evidentemente tutta politica e non passa per semplificazioni propagandistiche: una svolta europeista generica rischia di non avere significato o peggio di generare contraddizioni insanabili che si manifesteranno su tutto, dall’accoglienza “selettiva” riservata agli europei (ma gli albanesi e i bosniaci?) ai regimi fiscali differenziati di Irlanda, Olanda e Lussemburgo, al prezzo amministrato dell’energia ma solo per alcuni.
La convivenza politica fra almeno tre modelli diversi – quello anglosassone “mercatista” che di fatto ha egemonizzato l’Unione dall’inizio di questo millennio, quello comunitario dei Sei paesi fondatori della Cee tramontato con la caduta del Muro di Berlino, quello della “fortezza Europa” caro alla destra nazionalista ed antiamericana – genera una impasse i cui disastrosi effetti sono già noti a tutti dalle crisi finanziarie del 2007 e seguenti.
Come abbiamo detto parlando della suggestione del “Semaforo”, quello che serve è sviluppo di un nuovo modello politico in grado di affrontare con la necessaria sensibilità e competenza, la crisi ambientale, sociale ed economica, in una parola la crisi di sopravvivenza che ci riguarda direttamente e urgentemente.
La guerra è una tragica semplificazione per un periodo sempre troppo lungo per la sua durata, ma infinitamente breve per il corso della storia: soprattutto, è la dimostrazione che imboccare scorciatoie in politica, a qualsiasi livello, è un errore fatale.