L’unica ragione per cui abbiamo smesso di andare in chiesa, si scopre in questi anni impazziti, è che il Vaticano non ha pensato a inventare il like, l’unico miracolo cui teniamo, più tangibile dei pani e dei pesci teorici, l’unica liturgia che ci permetta non di cibarci del corpo d’un personaggio di fantasia di duemila anni fa ma di dimostrare che abbiamo un corpo, e un’anima, e soprattutto delle opinioni.
Se il cattolicesimo fosse stato meno arretrato (scambiatevi un segno di pace, ma per favore: noi vogliamo apporci dei cuoricini), saremmo ancora tutti lì, giacché avere dogmi e guide morali ci piace tantissimo, lo confermiamo ogni giorno.
Giovedì, per esempio, la Reuters ha raccontato che Facebook, che ogni giorno ci mette in castigo se diciamo cose come «ricchione» a un vecchio amico con cui condividiamo codici comunicativi ignoti agli impiegati di Zuckerberg, adesso ha deciso che dopo aver fatto le regole fa anche le eccezioni.
Quindi il safe place, il posto in cui nessuno si deve sentire messo a disagio figuriamoci in pericolo, in cui è fatto divieto di mettere in discussione le identità percepite figuriamoci quelle reali, è un po’ meno safe se sei russo. Se sei russo posso minacciarti. Sembra una puntata di Black Mirror, e invece.
«Secondo alcune email interne di cui ha preso visione la Reuters, e in deroga temporanea alle proprie politiche sui discorsi d’odio». Non è la frase più bella del mondo? Se domani un gruppo di donne francesi fa un attentato posso scrivere che le francesi sono tutte troie senza che Facebook mi metta in castigo, impedendomi quel diritto umano che è il like? Col razzismo come siamo messi, Bin Laden lo giustifica, in deroga? Commenti etnici su Saddam Hussein ma più in generale su chiunque venga dall’Iraq sono consentiti, in deroga?
«L’azienda di social network sta anche temporaneamente consentendo alcuni post che invocano la morte di Putin o di Lukashenko, secondo alcune email interne dirette ai moderatori di contenuti». Quel «temporaneamente» m’incanta, sento che lì dentro c’è il grande romanzo postmoderno. La scadenza è nota? Se domani firmano una tregua e i poveri utenti non se ne accorgono per tempo, si ritrovano tutti in esilio dalle piattaforme, banditi dalla possibilità di cuoricinare il cognato perché hanno dato del pompinaro sdentato che deve morire a quel Vladimir che un minuto prima era un criminale ma adesso è una creatura fragile che ha diritto di scorrere il proprio profilo Facebook senza turbarsi?
Le specifiche sono altrettanto incantevoli. Se infatti volete minacciare Putin di morte senza che vi venga impedito di postare i vostri penzierini per giorni, dovete attenervi alle linee guida della deroga. Che, ricopia la Reuters dalle mail interne, dicono che la minaccia non dev’essere una minaccia dettagliata. Non deve, cioè, contenere due o più specifiche. Se dite voglio tagliare la testa a Putin con una roncola sulla piazza Rossa, vi mettono in castigo: c’è la specifica di metodo e quella di luogo (non me lo sto inventando, non ci credo neanch’io ma parla proprio di due specifiche). Ma se dite solo «voglio ammazzarlo domani alle otto» va bene: c’è solo la specifica temporale.
L’ambasciata russa a Washington ha – cosa mi tocca dire – dato una risposta molto più razionale e lucida e liberale di quanto lo siano i dirigenti di Meta (adesso Facebook e Instagram si chiamano Meta, come sapete), ma soprattutto di quanto lo siamo noi, che ci facciamo dare regole su quali parole usare e non usare come fossimo cinquenni con genitori severi, col terrore che ci mandino in camera nostra senza più la possibilità di farci mettere i cuoricini da amici e sconosciuti sulle foto della pizza.
Dice la risposta dell’ambasciata: «Gli utilizzatori di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri di verità». Avete ragione, cari diplomatici russi. Anche perché, come dire, l’algoritmo saprà pure tutto di noi, ma è pur sempre quello che ci consiglia di leggere l’articolo che stiamo per twittare perché non gli risulta che l’abbiamo letto – ignaro che l’abbiamo scritto. O che con squisita ottusità censura Helmut Newton o Michelangelo ritenendo siano immagini uguali al porno amatoriale di vostra cognata.
Come possono piattaforme così strutturalmente fesse mettere in piedi linee guida che pretendono d’essere sofisticate? Certo che si possono minacciare i soldati russi, spiega un’email copiata dalla Reuters, ma solo perché in realtà lo si fa intendendo minacciare genericamente l’invasore, quando si è popolazioni stressate dalla guerra (c’è, giuro, una lista di nazionalità autorizzate a minacciare i russi in deroga; incredibilmente, la lista non include i milanesi che giurano di non dormire per la preoccupazione bellica). E comunque, specifica sempre la delirante email, non si possono minacciare quei soldati russi che siano prigionieri di guerra. Voglio proprio vedere i controllori che vagliano un post alla volta per approfondire se Tizior Tiziokov, di cui un utente si augura il decesso stasera alle sette meno un quarto, sia prigioniero di guerra o no.
Il problema siamo noi, che non vediamo l’ora di trovare religioni prescrittive da rispettare, che siamo contenti se ci trattano come cinquenni. Una non vorrebbe citare «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari» e quel che segue, perché è tra le citazioni più banali che si possano fare. Però ti ci costringono quando, come un mio conoscente ieri su Facebook, esultano perché Facebook ti tratta come un bambino scemo e ti dice su che articoli cliccare e su quali no: «Questo link è di un editore che Facebook ritiene possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del governo russo». Prima decidono chi sono i cattivi, e ne siamo contenti perché siamo sicurissimi che noi siamo e saremo sempre i buoni. È ovvio che sia e sarà sempre così, no? Quindi diamo l’unica copia delle chiavi della morale a dei miliardari in dollari, e – purché non ci vietino l’accesso ai cuoricini – lasciamo che decidano chi sì e chi no. Cosa potrà mai andar storto.