Un giorno della terza elementare ci vennero a prendere a scuola prima che finissimo il tempo pieno: avevano sparato al Papa, chissà cosa stava succedendo, magari la mossa successiva era far saltare in aria una scuola elementare di Bologna.
Il mese successivo, i bambini della mia età guardarono in diretta i tentativi di recuperare un loro coetaneo che stava morendo in tv, dopo essere cascato in un pozzo.
Quando ero al liceo l’Aids era una roba con cui si moriva, e si prendeva facendo l’unica cosa che t’interessi fare a sedici anni: scopare (oppure facendoti di eroina, che a quei tempi era diffusa quanto la Red Bull oggi).
Questa lista di dolenze non serve a dire che siamo stati la generazione più sfortunata di tutti i tempi, ma a dire che siamo stati gli ultimi ad avere dei genitori adulti. I genitori di oggi, per gli ottenni che vedessero un bambino agonizzare in un pozzo, come minimo chiederebbero il bonus psicologo.
I genitori di oggi, i genitori della mia generazione, dico spesso che li ha rovinati la Pixar. Se convinci gli adulti che debbano avere gli stessi consumi culturali dei loro figli, poi ti ritrovi con genitori adolescenti anche allorché quarantenni, cinquantenni, sessantenni. Gente che, all’età che una volta avevano i nostri genitori o i nostri nonni, invece del loden ha la felpa col cappuccio, e invece di Thomas Bernhard legge Zerocalcare.
Li ha rovinati la Pixar ma soprattutto li hanno rovinati i cuoricini. È l’unica spiegazione che trovo al fatto che una persona intelligente come Carlo Verdelli ieri abbia fatto un tweet così concepito: «Una ragazza di 16 anni a suo padre: “Prima il Covid, adesso la guerra da vicino. Quello che stiamo provando noi negli ultimi due anni, voi ve lo siete risparmiato per tutta la vita”. Dice il vero. Noi adulti da giovani avevamo sogni, loro incubi».
I sedicenni hanno tutto il diritto di non sapere niente, e da ben prima di questo secolo stupido.
Avevo dodici anni quando Roberto Roversi scrisse Chiedi chi erano i Beatles, una canzone la cui protagonista, la ragazzina bellina col suo sguardo garbato gli occhiali e con la vocina, non sa niente di niente. «I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco. Sì, sì: conosco Hiroshima, ma del resto ne so molto poco, ne so proprio poco».
Gli adulti, però, invece di blandire la loro inettitudine, incoraggiare il loro vittimismo, e rifiutarsi di comportarsi da adulti, potrebbero per esempio raccontar loro che no, non sei il sedicenne più sfortunato di tutti i tempi. Tua madre, avesse avuto la pandemia, non avrebbe avuto tutto il mondo nel telefono, avrebbe parlato con gli amici lontani sì e no una volta a settimana perché le interurbane costavano. Tua nonna non aveva la lavastoviglie, e se viveva fuori città neppure l’acqua corrente. La tua bisnonna s’è fatta due guerre mondiali.
«Mi ha detto mio padre: l’Europa bruciava nel fuoco. Dobbiamo ancora imparare: noi siamo nati ieri»: com’è che nel 1984 il sessantunenne Roberto Roversi sapeva rappresentare una differenza tra adulti col dovere della memoria storica e adolescenti per cui il mondo è cominciato il giorno in cui hanno cominciato il liceo, e nel 2022 il sessantaquattrenne Verdelli non ha voglia di farlo?
È perché gli adulti di oggi fanno i figli tardi e quindi poi, invece di considerarli ontologicamente scemi, li trattano come vacche sacre? È perché a compiacersi del vittimismo, pure per interposta generazione, si prendono moltissimi cuoricini, e retweet dolenti, e approvazione da una generazione (la mia) che ha sostituito il combinare qualcosa col riprodursi? È perché vincere il Nobel è faticoso, e dire «i bambini non si toccano» è facile e popolare, e quindi a un certo punto ci siamo detti ma chi me lo fa fare di sbattermi, e ci siamo buttati sui cuoricini?
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, mia madre viveva a Milano. Nel decennio successivo, raccontava così l’aver abitato in mezzo agli anni di piombo: «Non potevi andare dal parrucchiere senza aver paura che ti sparassero». Un’adulta di oggi direbbe che andava in biblioteca, o a fare volontariato, o altra dolenza che la facesse sembrare la vittima con le giuste caratteristiche che amiamo cuoricinare. Col parrucchiere fai l’impopolare fine di quelle che si dolgono per l’Ucraina dalle Maldive.
Al cui proposito, e della guerra vicina che mai prima dei sedicenni d’oggi nessuna generazione aveva dovuto subire: quand’ero piccola esisteva la Jugoslavia, sono certa che Verdelli se ne ricordi, e sappia com’è finita e tutte le cose che non sa chi i Beatles non li conosce. Magari può raccontarlo, che l’Europa bruciava nel fuoco, a una sedicenne che debba ancora imparare: lei è nata ieri, ma lui no.