Flavio Giurato, “Il Tuffatore” – 1982
Il secondo Lp di Flavio Giurato è un esempio lampante se ce n’è uno di quelli che si definiscono album di culto. Una categoria un po’ di nicchia, se volete, e totalmente individuale: ognuno ha i suoi, e sa bene di non essere in compagnia numerosa. Un disco di culto non ha mai troppi fedeli. E neanche gli artisti di culto, a dir la verità.
Sono quelli che prima o poi nella vita ti sfornano quel disco che è allo stesso poco conosciuto a livello di massa e conosciuto a memoria da una cerchia più ristretta, che viene magari ripubblicato a fatica ma che nella memoria dei fan resta in zona cuore, e di conseguenza indimenticabile. Ce ne sono indipendentemente dal genere, dall’anno, dalla grandezza dell’artista in questione. Che non è mai una grande star, troppo facile se no, i culti di massa si chiamano popolarità, divismo, e un disco di culto è la contraddizione implicita di disco condiviso con la massa. Il disco di culto lo senti tuo-solo-tuo, rappresenta una parte di te, almeno in un momento della tua vita.
“Il Tuffatore” è di sicuro tutto questo, come per certi versi lo sarebbero anche altri album di Flavio, sicuramente sia l’album che lo precede, “Per Futili Motivi” come quello che lo segue, “Marco Polo”. Tre album che escono nell’era dell’analogico fra il 1978 e il 1984, che sono ancora adesso menzionati e passati di mano in mano con la devozione che si ha nei confronti di qualcuno che ti ha colpito al cuore, e poi è fuggito via senza lasciare traccia.
Flavio Giurato è quel tipo di persona: è un’anomalia del sistema, un atleta in cerca di un’olimpiade immaginaria, un purosangue difficile da imbrigliare. Un fiume carsico che riemerge molte miglia più in là, quando nessuno se lo aspetta più. Forse neanche lui stesso, geneticamente antidivo e naturalmente antimercato.
Flavio è entrato e uscito dalla scena musicale per 45 anni. Dopo i primi tre, anni e anni di silenzio discografico (passati a fare il regista in RAI) e poi solo altri tre lavori a sorpresa: “Il Manuale del Cantautore” nel 2002, con una strofa che lo descrive perfettamente ne ’L’Ufficialino’: «Sono ritornato, ero scomparso ma non ero morto e mi han ritrovato/Sono vivo e voglio progettare motori», basta sostituire motori con canzoni. Poi “La Scomparsa di Majorana” nel 2015 e “Le Promesse Del Mondo” nel 2017. Tutti titoli non banali, ne converrete. A contorno, piccole date a sorpresa dal vivo nei luoghi più strani, generalmente fuori delle rotte abituali, pubblicizzati solo per passa parola.
Il motivo per cui “Il Tuffatore” con quella frase così scolpita, nelle parole e nell’immagine, della title track, «Voglio essere un tuffatore/per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria», sia diventato un disco di culto è un mistero anche per lui: «Non sono io che dovrei sapere il perché, ma…. forse il fascino viene dal titolo, sicuramente è un disco che si stacca dalla produzione usuale, più che altro perchè non lavoro con ritmi industriali. Lo sai come funzionava già allora: se sei un nome già da 100mila copie in pre-order e hai fatto due pezzi bellissimi, magari il resto è materiale di completamento. “Il Tuffatore” ha tutti pezzi curati maniacalmente fino allo spasimo, è protetto dai tempi e dai modi dell’industria, ero solito fare cose in modo artigianale, destinate a durare. Mai strumenti elettronici, c’è l’Hammond, le chitarre, un suono che non invecchia. Ha permesso che si avvicinasse a più generazioni, i padri che poi lo consigliavano ai figli, mi son ritrovato nei concerti dopo tanti anni ragazzi, oltre a quelli che vengono e ti fanno firmare tre vinili…»
Uno di questi è Andrea Vianello, ora direttore Rai Radio1, che Flavio si ricorda bene: «Nel suo ufficio c’era la copertina di “Per Futili Motivi” sulla parete, son rimasto veramente colpito». Immagino che la cosa sia stata reciproca, perchè su un libro uscito nel 2004 in cui 25 autori hanno dedicato un capitolo al loro rapporto con i dischi di Giurato, Andrea ha parlato di quel disco di debutto così particolare che si apre con una canzone sul 10 giugno 1940, data della dichiarazione di Mussolini dell’entrata in guerra: «Flavio esplode nei cuori di chi lo ama con un disco che racconta l’Italia e la Roma della guerra fascista, vista attraverso gli occhi di un 18enne col ’compiacimento di una buona e coraggiosa fortuna’. E che lo segue tra le camicie nere e le sottane di cotone, le aquile che diventano corvi, tra gli errori e le rovine di un’epoca sciagurata, come il protagonista di un fenomenale romanzo privato che si intreccia nel terribile dramma comune della seconda Guerra Mondiale vista da casa nostra. Fino al brano che dà titolo all’album, solo voce e pianoforte, notturno, struggente, definitivo. Dove una coppia di sconosciuti consuma contro un muro di strada un amore inutile eppure necessario, rubato eppure consapevole, disperato eppure vitale, mentre su Roma piove ed è una pioggia fatta di bombe».
Una recensione appassionata, che rimanda prescientemente agli echi delle bombe in questi giorni altrettanto tragici del 2022.
Quel primo disco è un gioiellino misconosciuto ma è il successivo, con i passaggi a Mister Fantasy, che gli portano «l’incontro con un pizzico di notorietà, mi riconoscevano per strada» e anche qualche apparizione televisiva generalista veramente fuori contesto, come alla Domenica In di Baudo. Ricordiamo il contesto, almeno a Mr F: fra i molti che giocavano con l’immagine e i remake (Ivan Cattaneo, Sergio Caputo, Gruppo Italiano, Scialpi, Roberto Freakantoni) e quelli a cavallo fra i 70 e gli 80 che ridefinivano il linguaggio cantautorale (Eugenio Finardi, Enrico Ruggeri, Pino Daniele, Gianna Nannini) Flavio c’era, ma da solo. Non avrebbe potuto far parte di nulla comunque, men che meno di un filone o movimento, figurarsi poi una scuola. Veramente unico, soprattutto nella voce: voce che non era pulita, levigata, piacevolmente seduttiva. La voce di Flavio ti prende di petto, ti racconta senza ruffianerie, è ruvida, non una carezza.. C’è qualcosa di animo punk, anche se la musica non lo è. Se c’era qualcosa della fluidità lirica di De Gregori nei testi, chi li cantava era il fratello maschio, quello cazzuto.
Però, riascoltandolo adesso, sfatiamo anche il messaggio che “Il Tuffatore” sia un album difficile, anticommerciale, ostico. Tutt’altro: entrati nel disco, dopo 30” che sembrano il finale di un brano dei King Crimson, non a caso c’è Mel Collins al sax (bel capovolgimento iniziale), le due facciate scivolano via abbastanza pop, almeno per quelli che erano i canoni dei primi anni 80. Perchè musica e sound sono in fondo abbastanza in linea con quel momento in cui comunque i cantautori stranieri cercavano traiettorie sonore inusuali, sperimentali a volte. Ma c’è anche tanta tradizione melodica italiana.
È un album dominato dal pianoforte di Toto Torquati, jazzista non vedente che ha partecipato alle incisioni di tutti i grandi della musica italiana, in cui le melodie disegnate dalla tastiera scivolano via con fascino discreto (’Valterchiari’) o in cui avanzano con un incedere ritmico pulsante e incessante (’Orbetello’). Prodotto molto bene da Flavio e Andrea Giaccio, il fratello di Paolo, a cui va dato il merito di aver trovato musicisti prestigiosi, oltre a Collins e Torquati anche Ray Cooper (il percussionista preferito di Elton John), e di essersi dati il tempo di trovare arrangiamenti, cambi di atmosfere e temperatura che assecondano la varietà delle scariche emotive che escono dai solchi.
Flavio rende merito anche alla CGD Sugar e a Caterina Caselli: «Ho registrato a Roma al Forum Music Village a Piazza Euclide, e a Milano nel favoloso studio all’interno della loro sede, con spiegamento di materiali e metodi. Ho avuto tutto, e quando siamo andati con Giaccio a registrare le parti inglesi all’AIR Studios di George Martin – ci siamo dovuti portar dietro tutti i master due pollici con le loro flange – sono venuti a salutarci in studio anche Ringo Starr e Barbara Bach». Sono ancora lontani i tempi quando, dopo l’insuccesso commerciale di “Marco Polo”, la casa discografica chiederà di sentire i provini prima di dargli il via libera, cosa che Flavio non accetterà, «i brani li costruivo in studio, nell’era analogica era impossibile farseli a casa». Da cui venti anni da desaparecido discografico.
Non sono canzoni nel loro formato pop standard, strofa-strofa-ponte-ritornello, sono strutturate in funzione del racconto, con crescendi e pause che servono, come in un romanzo, a correre e poi a tirare il fiato. A emozionarsi e poi prendersi un momento per riflettere. Molto inusuali, per il pop italiano, ma molto avvincenti, se cercate un’immersione in un mondo, e non solo uno sguardo dal treno che sfreccia. E va detto che è pieno di passaggi, se non proprio ritornelli, che non si fanno dimenticare facilmente. Io son tre giorni che canticchio «e tu che giri in macchina la notte/che ti telefono e nessuno mi risponde», e non riesco a levarmela di mente.
L’album si apre con due chitarre, la voce di Flavio raddoppiata da quella femminile, e con un pizzico di autoironia:
«Amore amore amore
Figliola non andare coi cantautori
Amore, amore, amore
Che poi finisci nelle canzoni…»
É la storia che ci accompagna per tutta la prima facciata e oltre, quella fra lui e la ragazza «di super buona famiglia romana che si muoveva in quegli ambiti, casa all’Argentario e Parioli» conosciuta andando a Messa alla chiesa che si affaccia su Piazza Euclide, lui alto e bello nel suo giubbotto della nazionale juniores di baseball che si allena a poche centinaia di metri, all’Acqua Acetosa:
«La tua vita pariolina
Ti ha cresciuto ragazzina
E sei mancata di sicuri appoggi
E sei fuggita nei villaggi
E non ti curi affatto della vita vera, ueilà!».
Dopo ’L’acchiappatore dell’Acqua’, in inglese, che è un prolungamento della prima in versione soft-rock (tipo ’Tequila Sunrise’ degli Eagles) con il sax che danza intorno alla ritmica al trotto, arrivano ’Orbetello’ e ’Orbetello Ali e Nomi’, che sono le due metà della stessa palla da tennis.
È il pianoforte che conduce la prima, che per i fan è il racconto dell’ormai mitico torneo di Orbetello, quello «quando è libecciato e non si è giocato/e la laguna sembrava volesse coprire il promontorio».
Nell’insieme sono otto minuti di romanticismo autobiografico di una storia finita anni prima e riconsiderata con l’occhio del trentenne che ha vissuto la fase più acerba e comincia a vedere le cose da un altro punto di vista e la trasforma in narrazione. Ricca di frasi che sono rimaste impresse e che abbiamo continuato a citare per anni, come
«Un giocatore è diverso da tutti gli altri passanti
Ma anche una donna alta non è mai banale
Sarà per lo sguardo necessariamente superiore».
È un corteggiamento romantico ma senza smancerie, più attento ai dettagli che uniscono e a quelli che dividono:
«Credo che ci pensiamo con lo stesso interesse
E c’è un appuntamento che nessuno ha stabilito
E non c’è un obbligo, ma una buona forza
Di rispettarlo
E tu sei sotto il sole del turno dopo
Quando il panorama si è raddolcito
E il pubblico numeroso commenta la competizione…»
….e poi quel riff che si scolpisce nella testa:
«E te che giri in macchina la notte
Che ti telefono e nessuno mi risponde
E te che giri in macchina la notte
Che ti telefono e nessuno mi risponde».
L’interruzione della libecciata, vissuta dal giovane tennista innamorato, continua la mattina dopo…
«E per quanto ti ho visto e per quanto ti ho sentito
Tu sei una giornata di riposo dove si comprano i giornali
E per quanto ti sento e per quanto ti vedo
Tu sei una gioia personale che scroscia all’improvviso
E quando arrivi te e quando ti avvicini
Mi si allargano le spalle e mi spuntano le ali
Le ali di Colombier e del suo giallo aquilone
La calma degli insegnamenti e le salite della precisione…».
Questi sono racconti estremamente visuali, dei videoclip già sul nascere. Non di quelli tutti-effetti e montaggio veloce a stacco, piuttosto dei cortometraggi con lunghi, insistiti primi piani, e cura maniacale dei dettagli. Racconti che non necessitano di rima baciata, che descrivono emozioni in forma colta ma imprevedibile. Un po’ come sono le emozioni.
Un altro brano bellissimo è ’Valterchiari’, dedicato a uno dei nostri più grandi attori e showmen che «è entrato nella mia vita tramite un amico di scuola che è andato a lavorare a Milano, e viveva in un residence dove c’era anche Walter Chiari. Mi ha colpito la sua fine, lui icona televisiva in bianco e nero del sabato sera morto una notte, in solitudine, di fronte alla tv accesa. In lui vedevo quello che non vedevo in me stesso, l’essere mattatore affermato, il senso di padronanza della scena, il mestiere a cui aspiravo, un maestro a cui avrei voluto assomigliare. Un brano con un’onda di emotività, però in fondo al quale c’è questo spettro di morte solitaria». Il testo riprende la storia d’amore:
«In una casa più alta e più bella
Di tutte quelle qui intorno
Consumiamo la nostra passione
E il nostro brevissimo giorno…»
…e poi scivola di nuovo, accompagnata da una melodia struggente, nei saliscendi emotivi di un amore fattosi contrastato:
«Io i miei fatti veri te li raccontavo sempre
Ed i miei pensieri li cambiavi lentamente
E le mie ragioni le negavi spesso e volentieri
Ed io per te, l’ultimo Valterchiari
Io per te, l’ultimo dei signori
L’ultimo degli attori, dei grandi suonatori
E ora ti lascio al tuo sonno che invidio
Con tanta gelosia
Per quel senso di sicurezza che mostri
Se ti prende sei sua
E mentre la luce è indecisa se rallentare o far presto
Ti ritrovo mai stanca e sempre perfetta tra le isole e il sale».
Un altro brano molto amato che a Flavio viene sempre richiesto dal vivo è ’Marcia Nunziale’, di cui la successiva ’Il Coro dei Ragazzi’ (con grammatica ripetuta nel disco, come si è visto) è la continuazione: «evidentemente è molto diffuso il fatto di aver amato uno o una che poi si è sposata o sposato con un altro, un atto di vita che ha toccato parecchie persone. Anche se da solo non lo posso fare senza il supporto ritmico e armonico di una full band».
La comprensione e l’accettazione si intrecciano con l’amarezza e la critica nei confronti della scelta che ferisce l’orgoglio:
«E se non ti conosco e anche se fosse vero
Che mi lasci per sempre, che ti sposi davvero
Anche fosse l’imbroglio, che tu già sai per prima
Anche fosse lo sbaglio d’una stanca mattina.
E se gli anni compiuti, così pochi e pesanti
Condizionano il torto che hai deciso di farti
Fosse per circostanza, per mancate risorse
Che ora cerchi l’aiuto di qualcuno più forte
Che tu da sola non sai dirti che sei buona e brava
Che tu da sola non sai dirti ’sono buona e brava».
Poi, tutto si ferma per un attimo, si sente un «Ecco!» di Flavio e parte un break violento di sax in crescendo altissimo, e poi le campane che danno a tutto solennità, e fato avverso, mentre il sax di Mel Collins e l’Hammond riportano tutto a terra verso l’ultima strofa.
’Il Tuffatore’, nella sua metafora non di entrata ma di fuoriuscita dall’acqua, è l’icona dell’intero album. Più che atletica, uscire dall’acqua all’aria è una visione estetica del movimento nello spazio. «La prima cosa che mi ha affascinato è la solitudine del tuffatore sulla piattaforma da 10 metri, appassionato non tanto al gesto di staccarsi dalla piattaforma e confrontarsi con la gravità, il volo e l’ingresso in acqua, quanto alla fase di risalita, rinascita dall’elemento liquido, amniotico, fino a fuori. E’ il racconto filogenetico di noi tutti, non dell’azione sportiva che viene sottoposta al giudizio e votata. Ed è una composizione che mi è venuta di getto, tre quarti d’ora, rispetto ad altri pezzi che hanno avuto tre o quattro anni per essere finiti». Gli chiedo se è qualcosa di botticelliano, di nascita di Venere dall’acqua. «La mia suggestione è nata guardando il quadro A Bigger Splash, 1967, dipinto dal giovane inglese David Hockney nel suo soggiorno californiano in cui si vede solo la piscina e lo spruzzo, nessun tuffatore. La riproduzione mi ha accompagnato per tutta la lavorazione. Però nella mia memoria era sicuramente rimasta anche l’immagine di una tuffatrice in un villaggio turistico, allenata dal padre. Forse può aver inciso anche questo, l’acqua che scorre lungo il corpo è una bella immagine».
La brevità di un brano, meno di due minuti, a volte fa risaltare la forza di una frase, di una immagine:
«Volevo essere un tuffatore
Con l’altezza sotto il naso ed il gonfio del costume
Volevo essere un tuffatore
Che si aggiusta e si prepara di bellezza non comune
E ora voglio essere un tuffatore
Per rinascere, ogni volta, dall’acqua all’aria
Voglio essere un tuffatore
Per rinascere, ogni volta, dall’acqua all’aria».
Poche parole rimaste scolpite per descrivere un gesto, un’intenzione, una metafora più ampia.
La stessa attenzione, rigorosa e perfezionista, che Flavio dedicava alla preparazione fisica. Tuffatore, tennista, atleta. Più che un cantautore, uno sportivo, campione giovanile di baseball e poi tennista. Quando Giaccio nella primavera ’83 manda un gruppetto di belle speranze a farsi le ossa in una tournèe per discoteche, ci troviamo di fronte una realtà nuova: il pubblico pagante, gli applausi ma anche il silenzio, il buio nel quale devi imparare a guardare. Ognuno si caricava a modo suo, prima. Ognuno si preparava per una serata di parlato, e musica, e contatto. Flavio no. Flavio sembrava stesse per andare in gara. La disciplina, la preparazione, la concentrazione erano fisiche. Tendeva i muscoli, allargava il respiro, fissava il vuoto dello stadio, misurava i passi che lo separavano dalla pedana. Quando saliva sul palco, la metamorfosi era completa: il cantatleta era pronto alla gara.
E gara era, con quelle canzoni scarne, fragili, potenti emotivamente. E gara era, con sé stesso. E quella voce tirata, sincopata, tira e molla, che non si lasciava andare mai. La sua presenza scenica, pur su delle basi preregistrate, era incredibile: andava da un punto all’altro del palco incitando con foga i musicisti, come se fossero realmente presenti. Con una forza e un’intensità non comune. Surreale, e potentissimo.
E gara era anche con il pubblico. Che lo percepiva diverso dagli altri. Troppo originale per dimenticarlo, e troppo inusuale per consumarlo con leggerezza, senza pensieri. Flavio richiedeva di entrare nel suo mondo per essere compreso, ma non era lì sulla porta ad accogliere nessuno. Incapace -o nolente- di sfondare, ma più che capace di costruire storie sofisticate e letterarie destinate a resistere nella memoria di molti. Tanto che, alla fine, la porta si è chiusa, e lui ha fatto altro. Per poi tornare, come nella canzone. Sempre con quella distanza dal ’mestiere’, e una vicinanza al proprio piacere creativo. Nel suo appartamento, pieno di chitarre, e dal quale esce poco. Dopo quel momento fugace di popolarità, «son tornato a quello che preferisco fare. Osservare la società senza essere riconosciuto».
Che poi, è la frase con cui chiude questo album in ’Notte di Concerto’, che riprende alcuni dei temi delle varie canzoni, una sorta di riassunto finale:
«E io vivo e lavoro per me
Vivo e lavoro per me
Se pensassi un po’ più a me
Se pensassi un po’ più a me».
Aspettiamo allora, con tutti coloro che considerano Flavio Giurato qualcosa di unico e prezioso nella scena musicale italiana, che riemerga ogni tanto, con le sue canzoni, i suoi spettacoli che spesso per motivi di mercato non gli consentono di avere quel suono pieno e ricco con cui è interpretato “Il Tuffatore”. Quello che riemerge dall’acqua all’aria. In metafora, anche dalla sua stanza allo studio, e al palco.