Cosa c’entra l’amore“Private Dancer”, l’album della rinascita di Tina Turner

Dopo la fine del sodalizio con Ike, segnato da violenze e abusi, la cantante ha passato sette anni di pedinamenti, manipolazioni e tasse arretrate, prima di risalire la china e diventare la regina del rock. A regalarle il successo è un disco registrato e mixato in due settimane, in cui convivono hi-tech e rock duro, melodie seduttive e arrangiamenti innovativi. Read&Listen

LaPresse

Tina Turner -“Private Dancer”, 1984

Se c’è un concetto che riassume tutta la parabola di Tina Turner, iniziata nei campi di cotone di Nutbush, Tennessee, passata attraverso il matrimonio tossico con Ike Turner fino ad arrivare al successo globale come rock star 40enne felicemente risposata e spiritualmente realizzata, la parola è redenzione. Quella redenzione che è sempre stata alla base del gospel, la radice della musica soul, che ha infervorato le prediche nelle Chiese della domenica e nei discorsi politici del reverendo King: la fede che per quanti peccati e dolori ci siano in una vita, tutto questo un giorno troverà una conclusione. La redenzione che mostra come anche una cantante bullizzata e prigioniera di una partnership infernale, un giorno potrà trovare il suo riscatto. Potrà chiudere una prima vita, e iniziarne una seconda, di cui la prima sarà solo un lontano ricordo.

E se c’è un momento emblematico dell’inizio della seconda vita di Anne Marie Bullock, è un giorno di novembre del 1977. Il luogo, il tribunale civile di Los Angeles. È il giorno in cui finalmente arriva di fronte al giudice la pratica di divorzio chiesto un anno prima, dopo la fuga dal marito Ike in una notte in Texas, il vestito sporco di sangue e senza un soldo in tasca.

Quello è il giorno in cui, pur di troncare qualsiasi legame col passato, rinunciando alle molte cose che aveva in comune con l’uomo che le aveva reso la vita impossibile, fa una scelta radicale: «Non voglio nulla, solo poter mantenere il mio nome d’arte». Quel nome che Ike aveva depositato con un copyright per poterla eventualmente sostituire nella Revue. Quel nome – anche quello! – di sua proprietà. È il giudice, colpito dal fatto che lei rinunci a tutto, a decidere. In aula, Tina guarda Ike e gli dice «mi hai dato tu questo nome, guarda cosa ne farò io ora».

È il primo passo verso una nuova vita, una nuova carriera, che la porterà sette anni dopo a quel “Private Dancer” che la incoronerà regina del rock e venderà 20 milioni di copie. Ma per arrivarci la strada sarà ancora lunga e dovrà lottare con le unghie, nessuno le regalerà nulla. Oltre a un bel disco, quindi, questa è la storia di una rinascita quando tutto sembrava perduto, e di quanto può esser dura la risalita. Che fantastica storia è la vita.

Nell’anno fra la fuga e la libertà è successo di tutto, nella vita privata di una moglie-schiava che ha dovuto sopportare l’insopportabile per sedici anni. La salvezza, la consapevolezza di metter fine alla prigionìa le è arrivata attraverso la pratica buddista. «Il mantra libera la mente», racconterà nel documentario “Tina”, «il nam myoho renge kyo è la legge mistica dell’universo, aiuta a manifestare le cose che vuoi raggiungere nella tua vita. Ho iniziato a visualizzare la mia vita e ho capito che dovevo davvero cambiare le cose».

Passa i primi due mesi a Los Angeles fra la casa della moglie di Wayne Shorter (in quegli anni coi Weather Report) Anna Maria e sua sorella Maria. Facendo le pulizie «come quando ero ragazza a Nutbush, e io so pulire come si deve», riorganizzando loro casa, dormendo in stanzette, uffici e dove capita. Cantando il mantra fino a quattro ore al giorno, una abluzione infinita per purificarsi e rinforzarsi. E, se non bastasse, portando in borsetta una pistola.

Ike la pedina, paga detective privati, intrattiene – incredibilmente – buoni rapporti con la madre Zelma e la sorella Aliette, le porta dalla sua parte e ogni volta che la scova son minacce, e amici con faccia da gangster che appaiono sul prato di fronte a casa, e colpi di fucili e di pistola che mandano in frantumi i vetri della macchina. Polizia chiamata nel cuore della notte, la loro faida ormai una consuetudine nei distretti della L.A.P.D. E in tutto questo, oltre a tener lontano il marito furibondo, deve continuare anche a prendersi cura dei quattro figli, ingoiando un bel rospo quando deve richiamare la vecchia tata e amante di Ike ad accudirli, loro che abituati a una vita di lussi non riescono ad adattarsi a vivere con la cinghia tirata.

Nella sua bio “I, Tina” scritta con Kurt Loder, Tina commenta: «Ho sempre detto che sono laureata all’Accademia Ike Turner, e che ho fatto tutti i compiti prima di lasciarlo: mi ero ripromessa di non andarmene prima che avesse inaugurato il suo studio Bolic Sounds, prima che realizzasse il suo sogno, e l’ho fatto. Che sarei rimasta finché i ragazzi non fossero cresciuti, e adesso lo erano. Mi era spiaciuto essere sempre via, ma quando ero a casa avevo cercato di essere una buona madre, li accompagnavo alle partite e dal dottore, perché di quella roba Ike non ne voleva saper nulla. Ero stata una madre, ero stata una moglie. Ora era tempo di essere me stessa».

Il marito di Ann Margret, una delle star degli show nei Casino di Las Vegas dove si incrociano, le consiglia un avvocato di quelli tosti, che comincia a fare le pulci a Ike, a investigare sui possedimenti comuni, e a cercare una soluzione anche economica, anche perché avendo lei fatto saltare una serie di concerti della Ike & Tina Turner Revue con la sua fuga improvvisa, deve ripagarli, e son tanti soldi. In aggiunta, che in America non mancano mai, tasse arretrate.

Il problema è che a 37 anni, Tina non ha un vero valore né sul mercato discografico né dal vivo. Deve praticamente rincominciare daccapo. La vecchia agente del duo, Rhonda Graam, la aiuta in incognito – anche lei minacciata da Ike, casa bruciata due volte e macchina in frantumi – e le trova piccoli ingaggi televisivi, tipo “Il Gioco dei Nove”, e qualche apparizione come cantante qui e là.

Il capo della sua vecchia etichetta la aiuta economicamente a metter su uno show e le procura una serie di contratti in quello che è il circuito dei cabaret degli alberghi, uno spettacolo luccicante in sintonia con l’epoca della Disco. Lei e la band tutti vestiti con costumi di scena, smoking e abiti sciantosi, la sua integrità artistica messa alla prova. Escono due album solisti che non entrano neanche in classifica. Alla fine degli anni ’70 Tina Turner, ancora in piena forma vocale e capace di far ballare sui tavoli il pubblico che le viene a vedere anche in club di second’ordine, è un nostalgia act. Come ce ne sono in tutto il mondo, il circuito delle vecchie glorie. Ben pagata in quella sorta di purgatorio, ma il suo orgoglio la spinge a volere di più.

La vecchia etichetta americana United Artista la molla, fortuna vuole (ma nessuno lo sa ancora) che essendo passata sotto proprietà della Capitol/EMI, la branca inglese della multinazionale – considerando che uno zoccolo duro nel Regno Unito lo ha, in fondo “River Deep Mountain High” aveva funzionato lì, non negli Stati Uniti – la tiene legata. In tutto il resto del mondo, Tina non ha più un’etichetta.

La svolta arriva inaspettata quando partecipa all’ennesimo show televisivo, chiamata da quella che è oggettivamente il suo opposto, Olivia Newton-John, la biondina australiana fresca dall’enorme successo di Grease dell’anno prima.

Dopo lo spettacolo, Tina si incontra con il fidanzato e manager di Olivia, Lee Kramer, e il suo assistente, anche lui australiano, Roger Davies. È Kramer che suggerisce a Davies di interessarsi di Tina, il cui sogno è «essere la prima cantante nera a fare il tutto esaurito come i Rolling Stones» per i quali Ike & Tina avevano aperto i tour solo pochi anni prima. In quel momento, una mission impossible.

Con molta diffidenza, i due si presentano all’ultimo spettacolo al Fairmont Hotel a San Francisco, pensando di aver sbagliato sala quando vedono tutti in smoking, in una ballroom con candelabri penzolanti dal soffitto. Lo spettacolo è bizzarro, Tina che canta “Disco Inferno” in mezzo a bombe di fumo e con i ballerini che le strappano via il vestito. Durante il primo show c’è la cena, e nessuno la considera più di tanto. Ma il secondo spettacolo va benissimo, nonostante il contesto Tina è ancora una grande, la gente in piedi sui tavoli e i candelabri che tremano.

Kramer decide di prenderla nella sua Agenzia, la affida a Davies: serve un cambiamento totale, ma capiscono ben presto che quel circuito di club e alberghi non è facile da abbandonare. Lavorano molto in Canada, considerato periferia statunitense, e segue tour ben pagato in Sudafrica (che le costerà un po’ di controversie, visto che vige ancora l’apartheid), un tour a Singapore e nelle Filippine, apparizioni anche alla tv italiana (con Pippo Baudo ed Heather Parisi in Luna Park). A Bangkok Davies non ne può più: troppa gente, troppo ben pagata, troppo sbagliato il format: «se vuoi farcela, taglia i ponti con tutto questo, lascia perdere quelle parrucche lunghe, molla gli smoking e i vestiti da sera, trovati dei ragazzi giovani che facciano rock’n’roll. Cambia tutto».

Fanno provini, creano una band live, e riprendono gli spettacoli, dall’Europa dell’Est a Dubai, ma poco o niente negli Stati Uniti. Incidono anche delle tracce con sessionmen di L.A., niente di che anche se la voce c’è ancora. Davies capisce che serve qualcosa in più, per esempio ripartire da un luogo prestigioso, dove ci siano ragazzi e discografici e giornalisti e Tina segnali che è una cantante rock, non nostalgica.

Il posto giusto è il Ritz a New York, dove lei non suona da dieci anni, e Davies pur di farlo offre la data solo sulle spese. Il proprietario Jerry Brandt si meraviglia sia ancora in giro ma è un fan, pubblica una pagina di pubblicità sul Village Voice e raduna un who’s who dell’intrattenimento in città, da Jagger a Warhol, a De Niro. Tre SOR, sold right out, esauriti istantanei, e un secondo ingaggio a ottobre, quando in platea c’è Rod Stewart, che la invita a duettare con lui a Saturday Night Live su “Hot Legs”, suo vecchio hit e perfetto per Tina e le sue celebrate gambe.

C’è anche Richard Perry, superproduttore, che a L.A. la porta a una data del tour degli Stones. Nei camerini Keith Richards si ricorda delle date insieme di qualche anno prima: «com’è che non sei in tour con noi?», «perché non mi avete chiamato!», risponde lei, e si mettono d’accordo per le date di novembre del Tattoo You tour, nel New Jersey. Quando qualche settimana dopo Tina esce sul palco per “Honky Tonk Women”, pantaloni di pelle neri e stivaletti a macchia di leopardo, la folla impazzisce e un altro scalino è conquistato.

Nel dicembre 1981 Tina decide che è arrivato il momento di fare il grande passo in questa operazione di rilancio: tutti le chiedono di Ike, e per far sapere a tutti che quel brand non esiste più, che ora è una solista, decide di fare un’intervista con People Magazine, in quel periodo il giornale sul mondo dello spettacolo più popolare in America, 30 milioni di copie settimanali.

Il giornalista pensa di parlare di musica, e si ritrova una notizia-bomba fra le mani: per la prima volta Tina parla del suo inferno domestico: «Vivevo una vita di vergogna e convivevo semplicemente accettandolo. Non so spiegare quanto fossi sola». In una sorta di catarsi pubblica, racconta tutta la sua storia, e la gente per la prima volta vede dietro il sipario di quella coppia che ha fatto la storia del R’n’B per tre lustri. L’intervistatore nel doc “Tina” racconta: «La vita che conduceva con Ike era familiare a tante donne che vivono con uomini fisicamente violenti. Nessuno parlava di violenza sessuale, violenza fisica, violenza domestica. La nostra generazione è stata quella che ha iniziato a rompere questo muro. L’idea che fosse sfuggita al suo destino e fosse indipendente piaceva moltissimo alla gente, rappresentava qualcuna a cui dare il proprio appoggio. Per molte, con cui identificarsi».

Da quel momento, la sua vita diventa una concatenazione di eventi, come se ogni cosa ne portasse una successiva. La vera svolta arriva inaspettata, un’offerta che, guarda caso, viene proprio da quel Regno Unito che rimane il suo unico legame con il mondo discografico. La British Electronic Foundation, o B.E.F., è un nucleo produttivo capitanato da Martin Ware e Ian Greg Marsh, due fuoriusciti dalla più famosa delle nuove band inglesi, gli Human League, un attimo prima che sfondino con “Don’t You Want Me”. In una delle loro incarnazioni, con l’aggiunta del cantante Glenn Gregory, sono gli Heaven 17, uno dei gruppi di punta dell’ondata new wave, o tecno-pop, dei primi anni 80.

Chiamano Tina a partecipare a “Music of Quality and Distinction Volume One”, un progetto curiosamente simile a quello che contemporaneamente a Mister Fantasy sta facendo Ivan Cattaneo: ovvero riprendere hit dei due decenni precedenti, rifacendole con strumenti e in stile elettronico. Loro riarrangiano e suonano con alcuni sessionmen, a cantare ci sono vecchie glorie assortite fra cui Sandie Shaw, Gary Glitter, Paul Jones (Manfred Mann). L’ultima base pronta è “Ball of Confusion”, un brano dei Temptations psichedelici degli anni ’60, e dovrebbe cantarla James Brown che però pretende la sua parte di royalty non solo sul brano, ma su tutto il disco. Non si può fare. Un conoscente di Ware gli dice che sta andando a Los Angeles, gli interesserebbe per caso Tina Turner?

Quando Davies e Tina arrivano in studio a Londra si guardano intorno e chiedono «e la band dov’è?», Ware e Marsh indicano il Fairlight: «eccola lì», lasciandoli a bocca aperta. «Roger, sono strani questi», commenta la cantante. Comunque sia, Tina fa una grande performance, il R’n’B è casa sua anche se con una base sintetica, e quel disco è una piccola scintilla che accende il fuoco, incluso videoclip sulla neonata MTV. È un vero riposizionamento, quella voce del passato così selvaggia accoppiata a una base hi-tech alla moda, una fusione di due mondi.

Il disco in Inghilterra funziona e un dirigente americano della Capitol Internazionale, John Carter, è il più entusiasta di tutti. Forse un contratto discografico mondiale si potrebbe fare, e Carter la porta in studio, facendole incidere diversi brani. Ma quando la cosa sembra ormai avviata arriva un cambio di management e i nuovi Tina non la vogliono proprio. Carter si mette in ginocchio di fronte al nuovo capo, supplicandolo di tenerla, che non si sarebbe alzato finché non avesse cambiato idea. Serve sempre qualcuno che ci creda più degli altri, sulla via del successo. «La rimettiamo nella lista perché ci tieni così tanto, finisci il tuo disco, ma sappi che noi non alzeremo un dito per promuoverlo».

È il 1983 e le stelle si stanno allineando, finalmente.

Il giorno che Tina torna a cantare al Ritz, Davies riceve una telefonata dalla Capitol. Chiedono 63 accrediti per quella sera. What?! Che succede? Succede che David Bowie è in città per il lancio di “Let’s Dance”, e quando dopo la conferenza stampa gli hanno chiesto che farà la sera, risponde «vado a vedere la mia cantante preferita». E chi è? «Tina Turner, of course». Al che si rendono conto che anche Tina è loro, e quella sera arrivano tutti, inclusi John McEnroe e Susan Sarandon e Keith Richards e Ron Wood e chissà chi altro. Notte nella stanza di Keith in albergo con champagne continuo e dischi, lui al piano che suona vecchio blues e R’n’B, e Tina che torna a casa all’alba come se fosse uscita da un sogno.

Davies deve insistere parecchio per tornare a incidere a Londra, magari di nuovo con i B.E.F., supportato dall’etichetta inglese nello scetticismo americano. Ma finalmente il treno si mette in moto. Ware all’incontro porta un po’ di dischi, ma Tina è perplessa, questi amano il R’n’B classico e lei vorrebbe fare rock, ma alla fine convergono su “Let’s Stay Together” di Al Green, uno dei grandi del gospel/soul del Sud.

In una recente intervista a Paul Sinclair di SuperDeluxeEdition Ware ricorda: «Volevamo creare un ibrido, con percussioni elettroniche come facevamo nei nostri dischi. Ma volevamo anche usare tecniche nuove, da soundscape, come nella parte introduttiva, quella sorta di accordo sospeso che crea l’atmosfera del brano. Abbiamo usato un Quantec Room Simulator, che allora era nuovissimo, poteva mantenere in memoria il riverbero di un accordo complesso e mentre suonavi creava un effetto di nuvola sonora».

Ai tempi del prog era l’effetto del mellotron, per capirci. Tina incide la definitiva già alla prima take, sorprendendo tutti. Ware riflette su quel momento e dà una spiegazione molto interessante: «Se esistesse la parola gentlewoman, come gentleman per gli uomini, Tina lo era. Molto rilassata, tranquilla. Una persona per bene, onesta, aperta, incredibilmente talentuosa. Quella prima take di “Let’s Stay Together” è stata una magia. Aveva chiaramente un background importante, ma di sicuro aveva fatto i compiti, e bene, su come cantare quel pezzo. Quando racconto questa storia a dei cantanti, soprattutto giovani, gli dico «non pensiate di entrare in uno studio e che tutto quello che vi esce dalla bocca suonerà bene».

È come prepararsi a un esame, chiaramente lei aveva già trovato il modo giusto di fare quell’interpretazione prima di entrare in studio. Per cui lì doveva solo rilassarsi e cantarla. È come raccontare una storia, lei la aveva già chiara in mente, dove andare, non arrivare troppo presto al momento clou perché poi non ti lascia spazio per andare avanti. Lei l’ha raccontata e si è creato un film di tre minuti e mezzo nella testa delle persone».

Quando suona dal vivo il brano in Inghilterra, dov’è diventato un top 5, Tina riassapora qualcosa che non sentiva più da tempo: «Quando l’ho cantata, tutti l’hanno cantata con me. Mi sono guardata in giro e ho pensato: “Ecco, questo è come ci si sente”. Lavorare a Vegas era ok, c’erano standing ovation anche lì, ma quanto i ragazzi rock ti entrano dentro, è una sensazione completamente diversa».

Il successo europeo lascia ancora freddi i discografici americani, finché un dj, Frankie Crocker, non comincia a suonarla a WBLS, una stazione radio black newyorkese. Improvvisamente, la Capitol emerge dal letargo, e nel giro di poco diventa anche lì un top 5. A quel punto, la Capitol mette fretta, chiede che Tina interrompa le 30 date del tour inglese per rientrare in studio. Davies ribatte che non se ne parla, per rispetto nei confronti del pubblico che ha supportato Tina negli anni bui. E poi, insiste, Tina deve registrare in Inghilterra: gli autori e i musicisti che rispettano di più il suo talento sono lì. Se c’è un posto dove incidere l’album cruciale della sua carriera è Londra, piena di nuove idee, nuovi approcci.

Quando ottiene il via libera da Carter, Davies comincia a darsi da fare, telefonate a tappeto, e l’album viene composto come un mosaico, con tanti autori e produttori diversi. Un collage che Davies raccoglie cercando le canzoni giuste, gli autori che possano funzionare, i produttori e le sale per confezionare più velocemente possibile un prodotto che sia però quel capitolo nuovo che tutti si aspettano.

La connection decisiva è con Terry Britten, che ha una canzone scritta col suo partner Graham Lyle, “What’s Love Got To Do With It”. È una canzone pop, Tina la odia, non ne vuol sapere: «Non mi piacciono le tue canzoni, troppo pop, non sono abbastanza toste». «Beh, possiamo cambiarla un po’», risponde in modo accomodante Britten di fronte al suo idolo. Nel doc “Tina”, si vede come fianco a fianco, in studio quel folletto «le cui gambe non arrivano neanche a terra e penzolano dalla sedia» la incoraggi, si mettano a fare una corsetta sul posto, e a poco a poco Tina trovi il passo giusto, alzi l’intonazione, cominci a sentirla sua.

«Che cos’ha a che vedere l’amore con tutto questo?
Cos’è l’amore se non una emozione di seconda mano?
Che cos’ha a che vedere l’amore con tutto questo?
Chi ha bisogno di un cuore quando un cuore può andare in pezzi?»

Tina trasforma il pop in soul, delle frasi carine in sentimenti profondi, la sua voce rauca sa di sofferenza, di sfiducia nell’amore. «Non ho avuto un amore genuino in tutta la mia vita». Come darle torto? Quando vieni da una vita in cui l’amore era non-amore, la sola evocazione ti lascia ferita. Non sarà l’unico brano del disco che sembra adattarsi perfettamente a lei, come se fosse una cantautrice che si racconta. Non a caso, sarà anche il titolo del suo biopic. È il pezzo che arriverà, unica volta nella sua carriera, al #1 americano, e trainerà tutto l’album.

Un altro autore che Davies vuole assolutamente coinvolgere è Rupert Hine, produttore dei Fixx, una band di tecno-pop con un suono elettronico cool e di successo. Produrrà uno di quegli inni rock, già inciso dagli Spider, che gli americani amano tanto, “Better Be Good To Me”, altro titolo di quelli che suonano autobiografici. Ma soprattutto, Hine insieme alla fidanzata Jeanette Obstoj, a cui Tina racconta dettagliatamente la sua storia, scrivono un brano che scava nella vita di Tina, ma non in quella con Ike, in una vita che risale a 1500 anni avanti Cristo.

Nella biografia “I, Tina”, racconta che negli ultimi anni prima della separazione ha visto spesso delle chiromanti, che nonostante il suo presente buio le hanno sempre predetto un futuro luminoso, e da sola. Ma quello con Carol Dryer è un incontro ad altro livello. È una medium, e le racconta cosa è andato storto nella sua vita da un punto di vista karmico. Le parla di una sua incarnazione precedente, quella della Regina egizia Hatshepsut, figlia del Faraone Thutmose I, che sposò il fratellastro destinato a regnare per otto anni come Tuthmose II: alla sua morte, è stata la reggente del trono con Tuthmose III, ai tempi un bambino. Ma è anche una regina guerriera, che comandava il suo esercito in battaglia, e Tina vede nella sua figura una metafora della sua vita: «Carol mi disse che Hatshepsut aveva preso il trono del fratello perché era molto perverso, e sapeva che avrebbe distrutto l’Egitto. Ma che non avevo nessun diritto di prendere il suo trono – nessuno ha il diritto di prendere nulla da nessuno – e che dovevo rivivere il rapporto in questa vita e pareggiare i conti. Ike era il fratello, e questa volta dovevo lasciare che distruggesse il suo impero, che è quello che ha fatto. E lui mi aveva torturato come io avevo torturato il mio fratellastro nell’altra vita. Quando mi ha raccontato tutto questo ho cominciato a piangere, ma sapevo che avevo vissuto il mio dolore e che le vite con lui erano finite. Anche se la mia vita – lei diceva – aveva ancora molto da dire».

Quando Tina ascolta il demo di “I Might Have Been Queen” gli occhi le si riempiono di lacrime. È la storia della sua vita, dai campi di cotone all’antico Egitto, luogo che per anni l’aveva emozionata, senza mai capire perché:

«Avrei potuto essere una regina
Ricordo la ragazza nei campi senza nome
Aveva un amore
Ma il fiume non si fermerà per me
Guardo verso le stelle con la mia memoria perfetta
Ho vissuto attraverso tutto questo, e il mio futuro non è uno shock per me
Guardo giù, ma non vedo una tragedia
Guardo verso il mio passato, il mio spirito che corre libero
Guardo giù, e sono nella storia
Sono una sopravvissuta dell’anima».

Ci sono altre cover importanti nell’album: la fantastica “I Can Feel the Rain”, un hit soul di Ann Peebles, stessa scuola di Al Green, una “1984” del Bowie di “Diamond Dogs” e una versione lenta, piena di soul e di significato di “Help” dei Beatles. Sull’edizione del trentennale ci sono anche tutti i brani che aveva inciso, senza pubblicarli, con la supervisione di John Carter.

Poi c’è il rock potente di Paul Brady, “Steel Claw”, e il suo manager Ed Bicknell dice a Davies che sfortunatamente gli altri suoi assistiti, i Dire Straits, non hanno brani nuovi da poterle dare. O forse no… C’è un brano che Mark Knopfler ha lasciato fuori dal quarto album “Love Over Gold” perché è una storia che non va bene cantata da un uomo. È una storia al femminile, sensuale e dark, e diventa la title track e il brano portante dell’album.

«Gli uomini vengono tutti in questi posti
E sembrano tutti uguali
Tu non guardi le loro facce
E non chiedi i loro nomi
Non pensi a loro come degli umani
Non li pensi per niente
Rimani concentrata sui soldi
E tieni lo sguardo sul muro
Sono la tua ballerina privata
Farò quello che vuoi
Sono la tua ballerina privata per soldi
E qualsiasi musica andrà bene»
.

Quando la sente, Tina non capisce se parla di una danzatrice personale o di una squillo, ma rimane affascinata dalla cruda poesia del testo e dalla melodia. Vorrebbe cantarla direttamente sulla base che Knopfler ha mandato ma non si può per motivi di diritti, e allora i Dire Straits tornano in studio a suonarla (purtroppo, chissà perché) senza Mark stesso. Viene sostituito da Jeff Beck, che fa (stranamente, essendo un maestro) un assolo così brutto che a Knopfler non andrà mai giù. Compensa un bell’assolo di sax, strumento che compare poco nel canone turneriano, dell’ex King Crimson Mel Collins.

Pensato, registrato e mixato in sole due settimane per 150mila dollari di costo, “Private Dancer” è come un commando istruito in fretta e mandato a conquistare il mondo. Un disco in cui si mischiano hi-tech e rock duro, melodie seduttive e arrangiamenti innovativi. Ci sono canzoni molto diverse nel disco, una varietà – come è stato scritto – «che può parlare a un camionista sulla strada per l’Alaska come a una donna ai fornelli in una casa suburbana inglese», ma quello è il suo pregio, piacere a più gente possibile.

Il collage è tenuto insieme quella voce così sexy e potente, così personale e riconoscibile, soul e classe insieme che Tina, splendida 44enne, ha maturato in pieno. Donna incredibilmente forte e tenace, una che il piano di ripresa e resilienza se l’è vissuto sulla propria pelle, trovando anche alla fine in un discografico tedesco più giovane di lei, Erwin Bach, un soul mate, l’amore (vero) della sua vita.

Un finale felice di una storia pazzesca. Quando è uscito “What’s Love Got To Do With It”, il biopic sulla sua vita, ha fatto conoscere ancor di più questa saga di riscatto e redenzione: «Io, una piccola ragazza dai campi di cotone del Tennessee, seduta su quella che sembra la cima del mondo. Mi hanno aiutato tanti lungo la strada, ma il vero potere dietro qualunque successo io abbia adesso è qualcosa che ho trovato dentro di me, qualcosa che è in tutti noi, credo, quel piccolo pezzo di Dio che aspetta di essere scoperto. Ho avuto paura andandomene da Ike, ma qualche volta devi lasciar andare tutto, devi purgarti. Non avevo nulla, ma avevo la mia libertà. Il messaggio qui è: se siete infelici, per qualsiasi motivo, se c’è qualcosa che vi tira giù, liberatevene. Quando sarete liberi, la vostra creatività e il vostro vero sé potrà uscire».

Quando arriva al Festival di Venezia per presentarlo insieme alla eccellente interprete, Angela Bassett, le chiedono cosa pensa del film. «Non l’ho visto», dice fra la sorpresa generale. «Voglio rivedere la violenza e la brutalità? No, per questo non l’ho visto. È come quando i soldati tornano dalla guerra. Non è facile». E in risposta a tutte le donne che le hanno detto “grazie per avermi cambiato la vita”: «Strano pensare che la parte peggiore della tua vita sia stata di ispirazione a così tanta gente».

Da “Private Dancer” – uno degli album più popolari degli anni 80 – in poi solo trionfi, dalle copertine di tutte le riviste del mondo alla chiamata a interpretare la guerriera Entity, la regina di Bartertown in Beyond The Thunderdome, terzo film della saga di Mad Max con Mel Gibson. Nel 1985 trionfo agli American Awards e quattro Grammy per Miglior Performance sia Pop che Rock e i più ambiti di tutti, quello di Canzone e di Disco dell’Anno, sul palco col folletto Britten e con dedica commossa a Roger Davies, l’architetto di quello che è stato uno dei comeback più clamorosi della storia del rock. Anche se Tina non l’ha mai considerato un ritorno: «Questo», detto con quel sorriso perfetto e il testone di capelli che sarebbe diventato il suo trademark, «è il mio primo disco». Ce ne saranno altri cinque, in un percorso straordinario che è durato fino al momento del ritiro, nel 2009.

E, sì, è stata la prima donna (non solo nera) che ha battuto tutti i record dei Rolling Stones, fino al concerto-record del millennio per il singolo artista nel 1988, 180mila in delirio al Maracanà di Rio de Janeiro. Sembrava una mission impossible, ma a volte…

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