Non può che far piacere il ricorso al latino, lingua non solo negletta ma anche bistrattata, per argomentare opinioni personali e sintetizzarle in tempi drammatici come quelli attuali. Il riferimento non è certamente alla citazione di Leo Strauss Reductio ad Hitlerum, su cui s’è recentemente esemplata quella di Reductio ad Putinum, sia per la specifica fallacia logica da esse designate sia per la pedantesca quanto mendosa latinizzazione dei moderni cognomi. Cui invece, sia ben chiaro, il celebre filosofo tedesco-americano d’origine ebraica fece ricorso con consapevole ironia nel coniare l’espressione 71 anni fa.
Ci si riferisce al contrario all’usata e trita massima Si vis pacem, para pacem in gran rispolvero da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. La si legge o la si sente ripetere ovunque, dai social ai salotti televisivi, in nome d’un pacifismo tout court non di rado accompagnato più da cauti tentativi giustificatori di Vladimir Putin che da condanne nette per le sue operazioni miliari – come lo stesso emulo di Pietro il Grande vuole le si chiami – e da empatia per vittime resistenti. Aggettivo, questo, non declinabile per il popolo ucraino secondo la filosofa televisiva Donatella Di Cesare, che va cianciando di neomaccartismo da un talk show all’altro.
Non sia mai poi che si parli di resistenza, come se un tale lemma non avesse tra i suoi molteplici significati quello generico di «azione di difesa contro il nemico o l’avversario» e come se quello specifico di «movimento di opposizione agli oppressori» sia storicamente pertinente, nonché ammissibile nel suo aspetto di «lotta armata», solo in relazione a quanto si determinò durante il secondo conflitto bellico mondiale in Paesi occupati da nazisti e da fascisti.
Questo non significa affatto deprezzare l’altissimo motto Si vis pacem, para pacem, letteralmente traducibile in Se vuoi la pace, prepara la pace o, più liberamente, in Se vuoi la pace, pianificala. Ma piuttosto evidenziarne il contraddittorio e alquanto ipocrita utilizzo in una guerra già guerreggiata. Guerra violenta e d’aggressione senza soluzione di continuità con quella in atto dal 6 aprile 2014 nel Donbass che, strettamente collegata con la crisi di Crimea e caratterizzata da efferatezze anche da parte ucraina come la strage d’Odessa, non aveva finora suscitato alcun interesse né manifestazione pacifista di sorta in Occidente. Orbene, la pace se la si vuole fortemente, come si grida giustamente in tante piazze italiane ed europee, bisogna appunto prepararla. Altrimenti si ridurrà il bel detto latino a mero slogan depauperato di contenuto.
Il ripercorrerne la genesi storica potrebbe aiutare a fugare tale pericolo, a essere più guardinghi nell’uso, a trarre valide lezioni per la costruzione d’una pace che sia veramente tale. Esemplato con significato rovesciato sul più noto Si vis pacem, para bellum (Se vuoi la pace, prepara la guerra) – riformulazione della pericope «Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum» tratta dal III libro dell’Epitoma rei militaris di Vegezio –, è per la prima volta attestato con sicurezza il 2 aprile 1841 in una lettera del sansimonista Barthélemy-Prosper Enfantin al generale Saint-Cyr Nugues. Si era nel pieno della seconda campagna francese contro Abd al-Qadir in Algeria, dove secondo il riformatore parigino alcune cause della sanguinosa e diuturna guerra «si sarebbero potute evitare» proprio applicando il detto Si vis pacem, para pacem. Non famoso come quello vegeziano ma in generale più «veritiero per il XIX secolo», si sarebbe potuto concretare per la specifica pianificazione e realizzazione della pace in Algeria attraverso una «conoscenza più perfetta del paese, delle sue risorse, dei costumi degli abitanti, del clima, dei luoghi e delle stagioni buone o cattive, in una parola se lo si fosse studiato».
Sia pur nella volgarizzazione inglese If you wish for peace, prepare for peace, se ne ha indicazione come «massima universalmente citata» già nel 1862, quando il politico ed economista britannico John Noble dava alle stampe il profetico opuscolo Arbitration and a Congress of Nations as a Substitute for War in the Settlement of International Disputes non senza criticare una diffusa ipocrisia nell’utilizzo e insistere sulla dimensione preparatoria della pace. Uno dei primi autorevoli testimoni italiani dell’originale formulazione in latino sarebbe stato Filippo Turati, che nel celebre discorso La vertigine degli armamenti e le riforme sociali, tenuto alla Camera il 12 giugno 1909, avrebbe detto: «Il famoso si vis pacem, para bellum non è che un giuoco di parole da oracolo di Delfo. Torniamo, signori, al senso comune, che dice: si vis pacem, para pacem. Poniamo fine a questa vana follia della gara degli armamenti che estenua le nazioni; creiamo gli arbitrati; federiamo gli Stati; se altri non vuol dare l’esempio, e noi si cominci».
Ritornando ai nostri giorni, una corretta pista interpretativa del detto è rinvenibile nell’audiomessaggio con cui Cristiana Collu, direttrice della Galleria nazionale di Arte moderna e contemporanea (GNAM), ha spiegato l’installazione Peace sulla scalinata del museo romano. «Si vis pacem, para pacem. Se vuoi la pace prepara la pace, costruisci la pace. Non basta infatti – per citarne la parte iniziale – essere contro la guerra o semplicemente desiderare la pace, che non è una parentesi, anche se a guardare la storia può sembrare così. E la pace non è assenza di guerra: ma è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia secondo le parole di Spinoza».
La pace, per l’appunto, non è assenza di guerra ma per citare Agostino è tranquillitas ordinis (tranquillità dell’ordine) e, come tale, non si può ottenere senza la tutela dei beni delle persone, il rispetto della loro dignità tanto come singole quanto appartenenti a un popolo, la pratica della giustizia, il diritto d’ogni singolo Stato di scegliere il proprio assetto economico, sociale, culturale senza per questo dover subire minacce, aggressioni, invasioni da parte d’un altro. Fosse anche in nome di presunte esigenze geopolitiche come sta accadendo in Ucraina.
Non a caso il fermo rigetto della guerra e la riprovazione della corsa agli armamenti da parte di Francesco (mai così citato a sproposito dagli odierni maître-à-penser da tv), che considera quest’ultima un mezzo per aggravare anziché eliminare le cause dei conflitti bellici e insiste sulla prioritaria strada dei negoziati, non significa affatto per il pontefice della Fratelli tutti che un popolo – nel caso specifico quello ucraino – non debba difendersi quando ingiustamente aggredito e che debba cedere a una resa incondizionata.
Se domenica all’Angelus tornava a deprecare «la violenta aggressione contro l’Ucraina, un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità» e a definirla «crudeltà disumana e sacrilega», ancora più chiaro è il suo pensiero nel messaggio indirizzato il 15 marzo a Gintaras Grušas, arcivescovo di Vilnius e presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee: «Il grido straziante d’aiuto dei nostri fratelli ucraini – così Bergoglio – ci spinge come Comunità di credenti non solo a una seria riflessione, ma a piangere con loro e a darci da fare per loro; a condividere l’angoscia di un popolo ferito nella sua identità, nella sua storia e tradizione. Il sangue e le lacrime dei bambini, le sofferenze di donne e uomini che stanno difendendo la propria terra o scappando dalle bombe scuotono la nostra coscienza».
Parole, queste, che sarebbe opportuno leggere in linea di continuità con il magisterium pacis di un predecessore quale Paolo VI, cui Francesco non ha fatto mai mistero di guardare come ispiratore. E in particolare con un passaggio del Messaggio per la VI Giornata della Pace (1° gennaio 1973), dove fra l’altro viene riportata la celeberrima frase Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Dove fanno il deserto, lo chiamano pace) tratta dall’Agricola di Tacito. «Ma – si chiedeva Montini – è questo residuo di vitalità, che possiamo dire vera pace, ideale dell’umanità? È questa modesta e prodigiosa capacità di ricupero e di reazione, è questo disperato ottimismo che può placare la suprema aspirazione dell’uomo all’ordine e alla pienezza della giustizia? Chiameremo pace le sue contraffazioni? Ubi solitudinem faciunt pacem appellant! (C. Tacito). Ovvero daremo a una tregua il nome di pace? A un semplice armistizio? a una prepotenza passata in giudicato? a un ordine esteriore fondato sulla violenza e sulla paura? oppure a un equilibrio transitorio di forze contrastanti? a un braccio di ferro nella tensione immobile di opposte potenze? Un’ipocrisia necessaria; di cui la storia è piena».
Richiederebbe un’analisi a parte l’ampio ricorso alla sentenza tacitiana nella seconda metà del secolo scorso da parte di movimenti sia studenteschi sia pacifisti come slogan per riprovare l’imperialismo statunitense. Sentenza invece dimenticata, a parte qualche minima attestazione, per la guerra in corso. Viene da chiedersi se ci sia o meno imbarazzo a utilizzarla, come a riproporre il relativo passaggio del discorso di Calgaco, dal momento che se ne potrebbe dare una rilettura attualizzante per l’imperialismo putiniano e gli orrori in corso. Quod Deus avertat, sempre che lo si possa invocare.