Con il magnifico discorso di ieri in Senato Mario Draghi – per chi avesse ancora dei dubbi – ha chiuso definitivamente la discussione se egli sia un premier tecnico oppure politico. Se la distinzione era già opinabile ab ovo, da ieri non ha più ragion d’essere. Nel fuoco della più drammatica contingenza europea, Draghi si è consacrato come un leader politico di livello europeo e mondiale. Tanto che ieri la sua maggioranza è diventata anch’essa politica, pur nelle evidenti contraddizioni che sono emerse anche nel dibattito parlamentare: l’ambiguità dei grillini, la pochezza di Matteo Salvini e, in senso opposto, l’inattesa fermezza antirussa di Fratelli d’Italia, che sarà anche dettata dalla tattica, ma che pure li ha portati a votare insieme alla maggioranza una risoluzione che ha stravinto in Parlamento lasciando fuori un manipolo di sbandati. Una maggioranza più forte, come più forte è l’unità europea emersa in modo persino commovente dalla seduta del Parlamento europeo.
Da ieri dunque Draghi non è più “Mr. Bce” chiamato a Palazzo Chigi per ottenere il Pnrr, visto che il predecessore avvocato Conte non ne pareva capace, e nemmeno più il capo di un governo alle prese con la pandemia. No. Da ieri Draghi è la testa politica di un nuovo corso democratico perché si è messo alla testa della Repubblica «i cui valori sono oggi minacciati».
Sono parole forti. Egli stesso è ben consapevole del salto di fase, della rottura dei vecchi schemi che Vladimir Putin ha imposto con le cannonate a un Paese democratico. «Negli ultimi decenni molti si erano illusi che la guerra non avrebbe trovato spazio in Europa»: siamo dunque dinanzi ad una leopardiana “strage delle illusioni” con cui bisogna fare i conti.
È un punto e a capo, quello che Draghi fissa, senza riguardi per il consolatorio positivismo che da sempre nutre i politici italiani: le conquiste degli anni passati non sono scontate, date una volta per tutte. È in corso una guerra di movimento, avrebbe detto Antonio Gramsci, all’assalto dell’egemonia democratica raggiunta dopo molti decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Anche se non ha pronunciato questa parte del testo ufficiale, nel discorso del premier figura un parallelo impressionante, che va al di là delle mere somiglianze storiche: «L’aggressione, premeditata e immotivata, della Russia verso un Paese vicino ci riporta indietro di 80 anni, all’annessione dell’Austria, all’occupazione della Cecoslovacchia e all’invasione della Polonia». Fu un turning point anche quello, soprattutto quello. Tutto crollava, vite e destini. È anche oggi, citando Robert Kagan, «la giungla della storia è tornata» e dunque se non fermiamo Putin subito egli potrebbe andare avanti, alla stregua della Germania hitleriana. Ancora libertà contro dittatura, pace contro guerra. È un discorso da “ora più buia”.
Ma la novità – ha detto nella replica a braccio – è che «l’Europa c’è», e non è né propaganda né il solito auspicio ma un fatto politico che cambia la scena del mondo. E l’Italia «non sonnecchia», come avrebbe detto Emmanuel Mounier, «non volta la testa dall’altra parte» perché come diceva Norberto Bobbio a Riccardo Chiaberge, «non si può restare passivi davanti a un’aggressione», ed è già in campo con le armi a disposizione, la sanzioni, l’attenzione a ogni spiraglio di negoziato, soprattutto la vicinanza morale, politica e anche militare all’Ucraina sotto attacco, non per ragioni geopolitiche ma perché le bombe di Mosca sono sganciate sui nostri valori, sulla democrazia europea, sulla sua libertà, sulla pace. Ecco perché non basta la deterrenza.
Viene in mente la parola d’ordine della sinistra francese nel 1936, “Des canons pour l’Espagne”, quei cannoni che i paesi democratici non inviarono ai repubblicani spagnoli esponendoli a sicura sconfitta da parte dei falangisti di Francisco Franco. Non bastano «incoraggiamenti» di fronte al grido di Zelensky: ecco perché il sostegno militare, in varie forme, sempre previa autorizzazione del Parlamento.
È quello che non colgono tante anime belle nostrane, come la filosofa Donatella Di Cesare che ha scritto: «Caro Draghi, questa guerra che da tecnico, non eletto dal popolo italiano, stai subdolamente proclamando, non è in mio nome». Due errori in un colpo solo: il presidente del Consiglio non ha “proclamato” nessuna guerra, semmai sta aiutando un Paese aggredito da una guerra altrui, con in più la sciocchezza giuridica e politica del “premier non eletto”, una frase buona per i qualunquisti da bar o dei no vax filorussi.
L’obiettivo storico che Draghi ha presente è quello di una «pace duratura», impossibile a realizzarsi se oggi si consentisse l’uso della forza «per disegnare i confini», è il richiamo degasperiano a «costruire un mondo più giusto e più umano», insomma è l’anti-guerra cui l’Europa, unita, è costretta in nome della democrazia.
Il tono di Draghi ieri è stato un po’ diverso dal solito. Di una solennità non retorica. Da commander-in-chief, o, più politicamente, da grande dirigente democratico. È quello che si diceva all’inizio: è impossibile non vedere che Mario Draghi è il leader politico dei democratici italiani. E davvero non si capirebbe se i i riformisti, i democratici, insomma tutti quelli che trasversalmente si ritrovano nelle parole e nell’azione di questo presidente del Consiglio tardassero ancora a farne il punto di riferimento politico e morale: con tutte le conseguenze politiche e forse elettorali che questo può comportare.
Ci riflettano Pd, Italia viva, Azione, +Europa, liberali, socialisti e democratici di ogni appartenenza. Anche in questo senso, siamo a una svolta politica nella vicenda italiana.