Da circa tre anni attendo di leggere l’intervista in cui i vertici del Partito democratico dovranno prendere atto della realtà e dare conto dei propri avventati giudizi su Giuseppe Conte e sul Movimento 5 stelle. Ora, dopo avere sfiorato una crisi di governo nel pieno della guerra russo-ucraina, sento che il momento è vicino. Abbiamo assistito infatti a una crisi minacciata da Conte per pure ragioni di posizionamento politico, intorno al nulla assoluto: un ordine del giorno di nessun effetto pratico, quello sull’aumento delle spese militari, per di più in linea con decisioni già sottoscritte dai precedenti governi Conte, tanto da essere stato votato alla Camera, appena due settimane fa, dallo stesso Movimento 5 stelle.
Al riguardo, almeno fino a ieri, Enrico Letta si era limitato al seguente tweet: «L’Italia lascerebbe sbigottito il mondo intero se si aprisse ora una #CrisidiGoverno. Sarebbe crisi dannosa per noi, per tutti noi. E sarebbe tremendamente negativa per il processo di #pace e per chi soffre per via della guerra. Noi lavoriamo con impegno per evitarla».
Da dove venisse e chi sarebbe stato a voler provocare questa crisi misteriosa Letta, come si vede, non ha voluto dirlo. La probabile conclusione della farsa con un gioco delle tre carte sulla tempistica del famoso aumento delle spese militari probabilmente consentirà di continuare a far finta di niente ancora per un po’. Ma il silenzio dei democratici non potrà durare ancora a lungo, dinanzi alla leggerezza con cui il loro principale alleato non ha esitato a mettere in discussione non solo il governo, ma la posizione dell’Italia nella Nato, mandando un segnale di tale portata in un momento simile. Per giunta, ripetiamolo, non per limitare effettivamente le spese militari, questione che semmai si deciderebbe a ottobre, con la legge di bilancio, o al limite nel Documento di economia e finanza, che sarà presentato nelle prossime settimane, ma semplicemente per ritagliarsi uno spazio nel dibattito (chiamiamola casella Orsini).
Il carattere del tutto pretestuoso della motivazione è ovviamente un’aggravante. È la prova di una scelta strategica, compiuta a freddo, con piena consapevolezza. Un posizionamento del tutto incompatibile con quello del Pd e del centrosinistra, nei tempi difficili che si annunciano.
Del resto, basta leggere toni e sostanza degli articoli del Fatto quotidiano contro gli americani guerrafondai e i nazisti ucraini per avere la riprova che non si è trattato di un incidente. Ma bastava anche semplicemente ricordare cosa diceva l’intero stato maggiore grillino fino all’altro ieri, evitando di ritagliar via dai servizi in cui giustamente si riportano le dichiarazioni filo-putiniane di Matteo Salvini le analoghe dichiarazioni di Alessandro Di Battista o quelle dell’ex viceministro degli Esteri – no, dico: viceministro degli Esteri – Manlio Di Stefano, che nel 2016 definiva l’Ucraina uno «stato fantoccio della Nato». Per non parlare delle inquietanti ambiguità emerse progressivamente – ma anche immediatamente, per chi le voleva vedere – dalla missione russa in Italia del marzo 2020, “Dalla Russia con amore”, non per niente chiamata come un film di spionaggio.
È evidente che l’attuale, imbarazzato silenzio dei vertici del Pd sulle mosse di Conte, interrotto solo dal farfugliare di quegli sfortunati dirigenti mandati avanti a lanciare penosi segnali d’avvertimento, sarà rotto al più presto da una presa di posizione chiara, netta, inflessibile. Già ne pregusto l’incipit: «Ma chi l’avrebbe mai detto? Sembrava una persona così a modo, salutava sempre…».
Il problema politico sollevato dalla presa di posizione del Movimento 5 stelle, inevitabilmente, si ripresenterà presto. Tanto più se, come sembra verosimile, su questa base i grillini tenteranno di costruire una qualche forma di aggregazione, lista, sub-coalizione con Articolo Uno.
Il capo del governo gialloverde che aveva cominciato la legislatura varando insieme con Salvini i decreti sicurezza la chiuderebbe dunque come leader di una nuova sinistra pacifista-neutralista: che spettacolo. Del resto, senza una grandiosa operazione di rebranding, chiamiamola così, non si vede come Conte potrebbe sfuggire all’inesorabile processo di autorottamazione del Movimento 5 stelle, certificato implacabilmente da ogni tornata elettorale successiva alle politiche del 2018.
L’ultima via d’uscita, a spese del Pd, è dunque la posizione occupata dalla sinistra radicale di un tempo, che già tanti lutti addusse ai governi dell’Ulivo e dell’Unione. Una strada insidiosa che sarebbe stato facile sbarrare ai cinquestelle, vista la loro storia e i loro recentissimi trascorsi al fianco di Salvini e di tutto il peggio della destra mondiale, da Donald Trump in giù, se gli stessi democratici non avessero passato gli ultimi tre anni a fare esattamente il contrario. E cioè ad accreditare e legittimare presso i propri elettori la favola del «punto di riferimento fortissimo» di tutti i progressisti.
L’unica speranza è che da tutto questo il Pd tragga la conclusione che è il momento di fare sul serio sul proporzionale, affinché ciascuno possa presentarsi alle elezioni con il proprio simbolo, e tanti saluti. Ma il tempo stringe.