Dopo il momento Hitler, è arrivato il momento Stalin. «Il richiamo di Putin alla “auto-purificazione” della società russa può avere solo una intenzione: ricordare ai russi di Stalin e delle sue purghe. Vuole che siano perseguitati da ricordi oscuri e ancestrali, che ricordino le storie dei loro nonni e che siano pietrificati dalla paura».
Lo ricorda Anne Applebaum, che di storia dello stalinismo è una dei massimi esperti mondiali. Nata a Washington da famiglia ebraica, divenuta specialista in Russia dopo una laurea a Harvard e un master alla London School of Economics e studi al St Antony’s College di Oxford, in prima linea a seguire le transizioni nell’Europa dell’Est dal 1988 come corrispondente da Varsavia dell’Economist; sposata dal 1992 con un esponente di Solidarność poi divenuto ministro della Difesa e degli Esteri e oggi tra i leader della centrista Piattaforma Civica, dal 2013 anche lei cittadina polacca, collaboratrice di numerose testate e dal 2002 al 2006 membro del comitato editoriale del Washington Post, del quale è tuttora editorialista; staff writer all’ Atlantic; fellow dell’Agora Institute alla Johns Hopkins University.
Lei è però orgogliosa soprattutto per il Pulitzer per la saggistica vinto nel 2004 col libro “Gulag: storia dei campi di concentramento sovietici”. A proposito di questo saggio, frutto di una ricerca durata sei anni, disse infatti: «Walter Duranty, famoso corrispondente da Mosca per il New York Times, vinse un Pulitzer per una serie di articoli che descrivevano i grandi successi dello stalinismo. Il mio premio sembra quasi una forma di giustizia storica».
Nel 2012 il suo libro “La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est 1944-1956” raccontò la comunistizzazione dell’Europa dell’Est. Nel 2017, con “La Grande Carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina” spiegò proprio l’Holodomor: il genocidio per fame che è diventato parte della identità degli ucraini, e della loro diffidenza verso la Russia. E nel 2020 con “Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo” si era unita al grande dibattito in corso sul grave processo di arretramento del pluralismo che è stato favorito da crisi economica e di cui hanno approfittato autocrati come Putin.
Se dunque il libro del 2017 è un po’ la chiave per spiegare la accanita resistenza cui stiamo assistendo, in quello del 2020 è invece la spiegazione dell’attacco. Come ha lei stessa chiarito, il problema vero per Putin non è che l’Ucraina aderisca alla Nato o alla Ue. Il problema è che inizi a funzionarvi una democrazia certo imperfetta per gli standard occidentali, ma comunque in cui un presidente in carica può perdere le elezioni e passare il potere al successore senza traumi. Come è appunto accaduto tra Poroshenko e Zelensky.
«L’Ucraina è una democrazia, e questo per lui è un pericolo. Putin è spaventato all’idea che a Mosca possa ripetersi quello che è accaduto a Kiev nel 2014. Lo considera una minaccia personale», ha spiegato.
D’altra parte, nella sua analisi proprio al fatto che Putin definisce la democrazia liberale «obsoleta» sono legati molti dei consensi che ha. «Ci sono anche persone – in politica, nei media – che ammirano genuinamente Putin. Ammirano il fatto che distrugga le regole. Che non rispetti la democrazia, i tribunali, i media. Che sia un autocrate».
Anne Applebaum ha spiegato anche come «l’idea che l’Ucraina non sia una vera nazione, che sia stata inventata da Lenin, è veramente strana». Conseguenza di questa stranezza, Putin nel discorso con cui ha aperto le ostilità si è in pratica appellato a Hitler. «Stalin incorporò nell’Urss e trasferì all’Ucraina alcune terre che appartenevano a Polonia, Romania e Ungheria». «Diede alla Polonia parte di ciò che tradizionalmente era terra tedesca come compensazione».
Poiché la parte occidentale dell’Ucraina non ha mai fatto parte dell’Impero Russo ma fu invece annessa all’Urss, negarne l’ucrainità serve a ribadire che sarebbe Ucraina solo quel che è stato per un paio di secoli sotto Mosca. Ma il fatto è che dopo lo sfasciarsi dell’Austria-Ungheria quelle zone erano state spartite tra Polonia, Cecoslovacchia e Romania, non Polonia, Ungheria e Romania.
L’Ungheria la Subcarpazia se la prese in realtà dopo la spartizione hitleriana della Cecoslovacchia. Per cui Putin si è richiamato implicitamente a Hitler, anche se probabilmente in pochi se ne sono accorti. Se vogliamo, l’idea che l’Ucraina non avrebbe il diritto di esistere richiama anche la giustificazione di Mussolini per la guerra in Etiopia.
Ma adesso il linguaggio diventa appunto quello staliniano: «Molte di queste persone sono mentalmente lì e non qui, non con il nostro popolo, non con la Russia. Queste persone sono pronte a vendere le loro madri», dice Putin degli «oligarchi», in sofferenza per vedere esporre i proprio beni e conti correnti all’estero alle sanzioni. «Si sentono parte della casta occidentale».
«Ma qualsiasi nazione, e soprattutto il popolo russo, sarà sempre in grado di distinguere i veri patrioti dalle canaglie e dai traditori, e li sputerà semplicemente fuori, come un moscerino che gli è volato accidentalmente in bocca».
Ecco: è un parallelo, quello con insetti nocivi, che è tipico dello stalinismo, come ricorda Anne Applebaum proprio nel suo libro sui Gulag.
«Anche Lenin e Stalin cominciarono accusando i “nemici” della miriade di fallimenti economici dell’Unione Sovietica: erano “disorganizzatori”, “sabotatori” e agenti di potenze straniere. Dalla fine degli anni Trenta, quando l’ondata degli arresti si intensificò, Stalin portò agli estremi tale retorica, denunciando i “nemici del popolo” come parassiti, inquinatori, “erbacce velenose”. Parlava dei suoi avversari anche come di “immondizia” che andava “continuamente eliminata”, proprio come la propaganda nazista associava gli ebrei all’immagine di parassiti, sanguisughe e malattie infettive».
Un tipo di vocabolario che riecheggiò anche in Italia, quando appunto Togliatti definì i due dissidenti del Pci Cucchi e Magnani «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa».