All’alba del nuovo millennio, un bel giorno del 2000 – alcuni mesi dopo i spettacolari fuochi d’artificio che ovunque celebrarono l’avvento di un’era radiosa fondata sulla circolazione senza freni e ininterrotta dell’informazione, delle merci e dei capitali – apparve un sito che intendeva raccogliere le valutazioni degli utenti riguardo hotel e ristoranti: si chiamava TripAdvisor. D’un tratto le esperienze soddisfacenti o, al contrario, deludenti diventavano oggetto di commenti che sarebbero poi stati letti da un gran numero di persone. Le recensioni cominciavano a diventare un’abitudine. Esse davano a chiunque la sensazione di non dover più subire passivamente le situazioni, di poter riprendere in un certo senso il controllo e instaurare un rapporto egualitario grazie all’esercizio della parola sulla piattaforma.
L’espressione della propria opinione poteva infatti consistere tanto nell’esaltazione disinteressata di un luogo, quanto in un regolamento di conti sotto forma di sfogo. È bene dunque osservare gli effetti da un punto di vista psicologico giacché tale disposizione ha dato a chiunque l’impressione di non essere più uno zimbello, di poter eventualmente denunciare mancanze e difetti di un dato esercizio pubblico sulla base di un procedimento suscettibile di rovinarne la reputazione, o, al contempo e all’inverso, di poter incoronare, ognuno nel suo piccolo, un luogo invece apprezzato partecipando così della sua buona nomea. Si capisce come fossero tutti felici di assistere all’avvento di una “democratizzazione del giudizio” e di un “potere delle masse”, destinati a smontare tutte quelle entità dotate di autorità prescrittiva, spesso giudicata prevaricatrice o lucrativa, rappresentate da guide gastronomiche o di viaggio.
Ma questo significava guardare le cose in maniera superficiale e non rendersi conto che queste nuove abitudini avrebbero instaurato metodi di controllo inediti. Perché il sito, oltre a stilare una classifica sulla base delle recensioni, dava la possibilità di prenotare hotel e ristoranti, contribuendo così a operare una pressione diretta sui luoghi, a lasciare indietro quelli teoricamente mediocri e a privilegiare quelli in apparenza più meritevoli. Una startup a vocazione planetaria costruiva il proprio modello economico sul fatto di stringere nella propria morsa una miriade di piccole e medie imprese ponendo gli individui al centro del processo e strumentalizzandoli in modo non dichiarato, con la scusa della condivisione di informazioni utili.
Ben presto queste pratiche sono state accompagnate dalla possibilità di dare un voto. A quel punto la libera estrinsecazione della propria opinione ha preso la forma di una sentenza più o meno sbrigativa che ha rafforzato negli utenti, giudici impietosi dall’alto del loro trono, la sensazione di essere importanti. L’obiettivo consisteva nel sintetizzare senza ambiguità un apprezzamento dando ulteriore potere a quella nuova mano invisibile destinata a operare il miglior adeguamento delle cose e a stimolare – per via della fiducia indotta – il maggior numero possibile di transazioni. Questa architettura d’insieme si nutre infatti del postulato secondo cui la soggettività delle moltitudini, qualunque sia il valore dei criteri in base ai quali si determinano, hanno sempre ragione.
In pochi anni questa tendenza si è rivelata talmente fruttuosa e in linea con i tempi da essere applicata non più soltanto a luoghi e servizi, ma anche agli individui stessi. A inaugurare la novità fu la società di NCC Uber, creata nel 2009, che aveva inventato un’applicazione attraverso la quale i passeggeri, una volta terminata la corsa, erano invitati a dare un voto al conducente.
I rapporti umani, che a volte davano luogo a conversazioni conviviali, così come i brevi momenti di complicità, diventavano oggetto di una valutazione formale. Lì per lì nessuno si accorse che, per la prima volta nella storia, le relazioni interpersonali, per quanto di natura commerciale, diventavano oggetto di una valutazione sistematica. Questo metodo portò a due grandi conseguenze. La prima riguardava i consumatori, i quali non si percepivano più soltanto come dei “re”, ma anche come degli elementi in grado, con un semplice clic, di infliggere una sanzione a qualsiasi essere umano che offriva loro un servizio.
La seconda concerneva la società stessa, che, grazie a questo principio, vedeva instaurarsi nuovi metodi manageriali altamente sofisticati.
L’azienda, infatti, analizzava continuamente le valutazioni e ritirava l’accreditamento ai conducenti con un voto inferiore a 4.5, su una scala di 5, allo scopo di ottimizzare la qualità del servizio, eliminare gli elementi che non rispettavano il capitolato, aumentare gli indici di soddisfazione e, infine, generare un gran numero di operazioni.
A poco a poco, e senza che ne accorgessimo, questa pratica ha istituito un nuovo tipo di controllo sociale. Il meccanismo si è rivelato talmente efficace che, da un certo momento in poi, anche gli utenti hanno cominciato a essere sottoposti a valutazione da parte dei loro fornitori di servizio. Come se l’azienda svolgesse una missione di polizia preventiva allo scopo di ridurre i comportamenti scorretti e gli incidenti, nell’ottica dunque di una maggiore sicurezza da entrambe le parti. Ben presto l’espressione pubblica delle opinioni si è trasformata in uno strumento di pressione economica e psicologica esercitata su vari attori, compresi gli stessi clienti, che ha assunto la forma di procedimenti disciplinari in tutto e per tutto inediti, apparentemente soft, ma che favorivano il proliferare insidioso di rapporti interpersonali strettamente utilitaristici e sottoposti a valutazioni reciproche.
Con il tempo queste consuetudini si sono estese anche ad altri settori della società. Sono nate piattaforme che invitavano gli utenti a valutare il proprio panettiere, il proprio parrucchiere, il proprio calzolaio, il proprio consulente finanziario, il proprio avvocato, persino il proprio medico. Alcune avevano l’audacia – o, meglio, la tracotanza – di incitare gli studenti a dare un voto ai loro professori, procedendo così a un rovesciamento dei ruoli quanto mai eloquente che testimoniava, senza ipocrisia, lo status attribuito oggi all’individuo, la cui parola – a prescindere dal grado di competenza in merito – ha valore di verità.
Queste abitudini sono parse talmente tanto naturali che alcuni hanno addirittura reputato auspicabile offrire a tutti la possibilità di dare voti ai membri della propria cerchia di conoscenze. Tale era il progetto di Peeple, concepito nel 2015 da due donne, Julia Cordray e Nicole McCullough, che avrebbe dovuto prendere la forma di un’applicazione. L’idea era quella di classificare tutte le persone su una scala da 1 a 5 stelle e secondo tre categorie: “personale”, “professionale” e “sentimentale”.
La dimensione sensazionalista della loro impresa le obbligò spesso a spiegare le loro intenzioni: «L’app Peeple ci consente di scegliere meglio le persone che assumiamo, quelle con cui lavoriamo, con cui usciamo, quelle che diventano nostri vicini, nostri coinquilini, i professori dei nostri figli. Ci sono infinite ragioni per le quali vorremmo poter verificare le referenze di chi ci circonda». Ma vista la quantità di proteste che tale idea suscitò, i fondi furono tagliati e il progetto venne annullato.
In realtà quello che queste menti allora offuscate non avevano colto era che simili dispositivi non avrebbero fatto altro che condensare pratiche già in uso qua e là. Forse era questo l’intento ispiratore dell’episodio della serie Black Mirror intitolato Caduta libera, che metteva in scena una società in cui tutti si valutavano l’un l’altro secondo una consuetudine che rivelava gerarchie e vantaggi di ogni tipo, come anche, al contrario, handicap e vicende umilianti subite nel corso della vita quotidiana.
A ben guardare, e al di là della finzione, molti di questi procedimenti non fanno che prendere atto – quasi con rassegnazione – che i sistemi di quantificazione sono ormai ovunque, in particolare sul posto di lavoro, e che sono vissuti con una tale pressione da spingere la povera natura umana a volersi prendere una rivincita sottoponendo a sua volta le entità e gli altri alle stesse perizie. La consapevolezza degradante, e sempre più diffusa, di essere strumentalizzati genera infatti il desiderio – non dichiarato, ma appagante – di strumentalizzare a propria volta il prossimo.
Da “Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune”, di Éric Sadin (traduzione di Francesca Bononi), Luiss University Press, 2022, pagine 232, euro 22