Tra le mille conseguenze dell’inquinamento atmosferico ci sarà anche, stando a un recente studio, l’aumento dei pollini nell’aria. Certo, ci sono problemi più gravi causati dalle emissioni e dal conseguente riscaldamento globale, ma a leggere con attenzione la ricerca appena pubblicata sulla rivista Nature Communications il dato è di una certa importanza. E non riguarda solamente gli allergici, che sì, starnutiranno di più, ma tutti noi.
Partiamo dall’inizio. Il team di ricercatori che firma la pubblicazione scientifica sostiene, dati alla mano, che la stagione dei pollini durerà di più. Inizierà prima, e non di poco, ma di quaranta giorni, e si concluderà fino a 19 giorni dopo il normale. Va specificato che sono dati raccolti in America settentrionale, quindi hanno una valenza locale, ma in altre parti dello studio notiamo anche l’applicazione degli stessi modelli predittivi al resto del pianeta, e il problema, anche se in misura diversa, è lo stesso.
Le zone settentrionali della Terra, quindi il nord dell’America, dell’Europa e dell’Asia, avranno gli aumenti più significativi sia della quantità di pollini (si prevede che raggiungeremo un +200% rispetto a un secolo fa) che della durata della stagione degli stessi. E questo per un motivo semplice: il riscaldamento globale colpisce con più forza vicino ai poli, è qui che modifica maggiormente il clima. Per inciso, va ricordato che questo è proprio uno dei motivi per cui noi umani non riusciamo a renderci conto della gravità del problema climatico: viviamo in zone temperate della Terra, lontano da dove, invece, il riscaldamento globale ha conseguenze più serie. Viviamo lontano dai ghiacci che si sciolgono, per esempio.
Ma torniamo ai pollini. Uno degli aspetti più sorprendenti della ricerca appena pubblicata è che sono ben due gli aspetti che stanno contribuendo a modificare la loro stagionalità: il primo è l’aumento delle temperature, ovviamente, e poi c’è l’anidride carbonica. Ed è soprattutto quest’ultima ad avere gli effetti più rilevanti.
Semplificando, ciò che sta accadendo è che le temperature elevate prolungano alcune fasi della vita dei vegetali, permettendo alle piante di avere periodi di crescita più lunghi. Una parte di questi periodi di crescita che si espandono è proprio quella in cui si produce il polline. Che, quindi, aumenterà in termini assoluti. Ma è l’anidride carbonica a fare il grosso del lavoro. La CO2, infatti, ha un diretto effetto sui processi di fotosintesi, cosa che, tra le mille conseguenze, comprende anche quella di una maggiore produzione di polline.
A un primo livello, quindi, il problema è ecologico. Modificare la stagionalità dei pollini comporta in automatico uno scompenso di alcune fasi vitali dei vegetali e degli ecosistemi di cui fanno parte. Gli scienziati, per esempio, fanno notare che alcuni cicli riproduttivi di piante diverse che, di norma, in America settentrionale avvenivano in periodi distinti, stanno invece sovrapponendosi. Avvengono, cioè, in contemporanea con delle serie conseguenze sull’efficacia delle impollinazioni. Restringendo il cerchio ci sono poi gli effetti sulla nostra salute: avremo più persone allergiche, avremo fastidi e condizioni cliniche che perdurano di più e con sintomi probabilmente più gravi.
Infine, restringendo il cerchio per la seconda e ultima volta, ci sono le conseguenze economiche. Già oggi le allergie (molte delle quali non sono curabili: è possibile soltanto, in certi casi, alleviarne i sintomi con dei farmaci) sono una spesa ingente per i singoli come per le famiglie. I più giovani perdono giorni di scuola e gli adulti giorni di lavoro. Il che ha già oggi delle ripercussioni economiche negative, ma sarà ancor più vero in futuro.
Non esistono – o almeno non ancora – dei dati precisi su quali saranno, questi costi ambientali, sanitari ed economici. Ma un’idea, leggendo lo studio scientifico di cui parliamo, ce la si può fare. Un esempio su tutti: già oggi il 30% della popolazione mondiale soffre di allergie simili, ed è un dato destinato a crescere.