La rivoluzione digitale, ci viene insomma detto, non è contrastabile o arrestabile. E questa caratteristica sembra proprio ricordare una delle due accezioni di rivoluzione ricordata nel capitolo 1, quella più antica: che il moto degli astri segua «una traiettoria preordinata» compiendo la sua rivoluzione è un fenomeno naturale irresistibile, «ed è al di fuori della portata del potere umano», scrive Hannah Arendt.
Ad accompagnare questa etimologia di ritorno ciclico, c’è ovviamente l’idea di necessità storica: fu il rivoluzionario francese Camille Desmoulins a parlare di un «torrente rivoluzionario», inaugurando le metafore acquatiche associate alla rivoluzione (anche a quella digitale), spesso raccontate come inondazioni inarrestabili, tsunami violenti, corsi d’acqua in piena che rompono gli argini e travolgono tutto ciò che trovano sul loro cammino.
Ma forse la citazione più nota di «rivoluzione irresistibile» la si deve a un altro teorico delle rivoluzioni, Alexis de Tocqueville, che nell’introduzione al secondo libro di “La democrazia in America” scrive a proposito della democrazia stessa: «Tutto il mio libro, appunto, è stato scritto sotto l’impressione di una specie di terrore religioso, sorto nella mia anima alla vista di questa rivoluzione irresistibile, che progredisce da tanti secoli, sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancor oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte».
Per Tocqueville, già nell’Ottocento la democrazia avanzava in maniera irresistibile da secoli, sembrava un fatto provvidenziale, trascendente e universale, procedeva anche a dispetto delle rovine o degli errori che si stava lasciando alle spalle. Mi pare una delle definizioni più applicabili anche alla rivoluzione digitale, che negli ultimi decenni come un fiume in piena ha travolto generazioni, società e culture diverse, producendo anche danni che ha però saputo sapientemente celare e creando una sorta di «terrore religioso» su cui ci si soffermerà nel prossimo capitolo.
A rendere irresistibile, e quindi non arrestabile, la rivoluzione digitale concorrono anche tre «leggi» spesso citate quando si parla di digitalizzazione.
Già il termine legge lascia intendere che queste osservazioni avanzate soprattutto da inventori-imprenditori abbiano una sorta di crisma scientifico, si basino su dati empirici e siano valide fino a quando qualcuno non ne dimostri l’infondatezza così come avviene in genere nella ricerca scientifica. In realtà, queste leggi sono state criticate o addirittura confutate senza però che questo ne modificasse le sorti e sono oggi ancora venerate e recitate quasi come dogmi incontestabili della rivoluzione irresistibile.
La legge di Moore, formulata nel 1965 da Gordon Moore della Fairchild Semiconductor e poi cofondatore della Intel nel 1968, predice una crescita esponenziale della potenza di calcolo dei computer nel corso del tempo.
In realtà, Moore non ha mai formulato questa legge nei termini divenuti popolari, né ha mai pensato a una vera e propria legge, né questa si è puntualmente verificata nel corso del tempo, come invece viene spesso sostenuto. Nel 1965 Moore notò solamente che il numero dei componenti di un chip era raddoppiato ogni anno da quando il primo prototipo fu prodotto nel 1959.
Questa osservazione, senza alcun valore predittivo, è poi stata modificata nel corso del tempo: negli anni Ottanta venne descritta come il raddoppio del numero di transistor ogni 18 mesi, all’inizio degli anni Novanta fu interpretata come il raddoppio della potenza dei microprocessori ogni 18 mesi, nel corso degli anni Novanta si trasformò nell’affermazione che la potenza di calcolo di un computer raddoppia ogni 18 mesi. Molti osservatori hanno notato un rallentamento nella crescita esponenziale della potenza dei computer negli ultimi decenni, ma queste osservazioni critiche non hanno avuto alcun impatto e la legge di Moore ha mantenuto la sua validità assiomatica, spinta anche dagli interessi della Intel nel guidare in tal senso il discorso pubblico.
La seconda legge, quella di Metcalfe, ha a che fare con le reti di comunicazione. Prende il nome da Robert Metcalfe, inventore delle reti Ethernet e fondatore di 3Com, e sostiene che l’utilità e il valore di una rete sono proporzionali al quadrato del numero degli utenti. Non sorprende che questa legge sia stata introiettata e promossa dal mondo di internet visti i suoi corollari. La connessione/connettività va elevata a valore assoluto dell’economia di rete, concetto sposato appieno tanto dal pensiero politico, che infatti insiste sul contrasto al digital divide, quanto da slogan e mission di alcune aziende digitali come «Connecting people» (Nokia di qualche anno fa) o «Bring the world closer together» (Facebook dal 2017).
Di conseguenza, occorre aumentare il più possibile il numero degli utenti di un network (anche di un social network, evidentemente) perché questo acquisisca valore economico, includendo chi è recalcitrante o non può accedere per ragioni tecniche e che però rischia di essere sempre più escluso anche dalle relazioni sociali online e offline.
Insomma, la legge di Metcalfe sostiene che, una volta che ha attratto un club numeroso di utenti, una rete acquisisce valore economico e sociale, cosa che la rende irreversibile e difficile da sostituire (le teorie della path dependence direbbero quindi vischiosa) e addirittura «obbliga» gli utenti a farne parte. Si pensi a WhatsApp in questo momento storico, a quanto sia difficile e costoso in termini di relazioni sociali non utilizzarla, ma anche quale valore economico abbia assunto per Facebook/Meta, che ne detiene la proprietà.
Anche la legge di Metcalfe, come quella di Moore, è stata criticata e messa in dubbio nel corso del tempo, in primo luogo perché è difficilmente quantificabile e verificabile, ma è ormai accettata e data per scontata nel discorso pubblico, tanto che lo stesso valore economico delle aziende digitali che propongono servizi di rete è misurato in base al numero degli utenti.
L’ultima delle tre leggi che spiegano la rivoluzione irresistibile è quella di Makimoto e, in una sua prima versione, venne formulata nei primi anni Novanta dal direttore responsabile della Sony, Tsugio Makimoto, figura di rilievo nella storia della digitalizzazione giapponese, tanto da essere soprannominato Mr. Semiconduttore.
La legge di Makimoto, formulata anche attraverso vari grafici, teorizza l’esistenza di cicli decennali nello sviluppo delle tecnologie digitali: in particolare, a un decennio di sviluppo e standardizzazione tecnologica sembra seguirne un altro di vendita e mercificazione di quella tecnologia. Questa legge è evoluta nel corso del tempo, fino ad arrivare nel 2002 a una formulazione in cui Makimoto previde vari cicli della rivoluzione digitale: un primo ciclo analogico (la contraddizione in termini è interessante) tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento centrato sulle tecnologie della TV e del videoregistratore, un secondo ciclo digitale tra gli anni Ottanta e il 2005 con protagonista il computer, fino a un terzo ciclo sempre digitale caratterizzato dalla diffusione di vari prodotti di consumo e dalle reti, che si è avviato negli anni Novanta e dovrebbe persistere almeno fino al 2030.
Le tre leggi, nel loro complesso, sono la traduzione «scientifica» dell’idea determinista che la rivoluzione digitale sia un processo irresistibile, esponenziale e direi inesorabile: i computer raddoppieranno la loro potenza, le reti con più utenti attrarranno altri utenti e questo aumenterà il loro valore, la rivoluzione procederà per cicli in cui le nuove tecnologie si sostituiranno ai vecchi dispositivi digitali.
È chiaro inoltre che le tre leggi abbiano un’aspirazione predittiva e cerchino di interpretare, o in alcuni casi di plasmare, il futuro della digitalizzazione, come vere e proprie profezie che si autoavverano.
da “L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale”, di Gabriele Balbi, Laterza, 2022, pagine 168, euro 14