Com’è non avere un passato? È lo spunto da cui parte “Severance”, di cui ho visto due puntate senza capirci granché, e in cui gli impiegati della multinazionale del male, depositari di segreti industriali (e chissà di quali turpitudini), lasciano che venga loro impiantato un chip che li divide in due: a casa ricordano solo la vita privata, in ufficio solo i fatti del lavoro.
Chissà se, nel pensare a individui senza memoria (e che quindi in ufficio perderanno molto meno tempo), gli autori hanno preso spunto dagli alunni di Mario Fillioley, che insegna in una scuola media e l’altro giorno ha descritto su Facebook la frustrazione di quando i tuoi allievi scoprono su TikTok dieci secondi d’una vecchia canzone, e se tu dici loro che la conosci, che esiste da decenni, che va oltre quei dieci secondi, ti dicono no prof, si sbaglia, vede, è uscita adesso – incapaci di concepire che il mondo esistesse prima di TikTok. Sembrano quella canzone di Bright Eyes, questo è il primo giorno della mia vita, la tua è la prima faccia che abbia visto: solo che, invece che innamorati, sono ignoranti. Il risultato è lo stesso.
No, non sto scrivendo il secondo articolo in tre giorni su quanto siano scemi i giovani. Cioè, sì: sto scrivendo il centesimo articolo in cento giorni su quanto a vent’anni si sia stupidi davvero (mica son così brava da scriverne un verso solo e farlo durare per sempre); ma ho un solido appiglio culturale. Ve ne ricopio l’incipit.
«Gli anni Novanta sono cominciati il primo gennaio del 1990, ma naturalmente non è andata così. I decenni hanno a che fare con la percezione culturale, e la cultura non sa leggere l’orologio. Gli anni Cinquanta sono iniziati nei Quaranta. I Sessanta sono cominciati quando John Kennedy diede l’ordine di andare sulla Luna nel ’62 e sono finiti alla Kent State nel maggio del ’70. I Settanta sono stati concepiti la mattina dopo Altamont, nel ’69, e sono scaduti durante i titoli di testa di “American Gigolò”, il che significa che ci sono stati cinque mesi in cui erano contemporaneamente gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Quando il muro di Berlino cadde, nel novembre dell’89, sembrava che gli anni Ottanta fossero immortali, ma quello fu il principio dell’eutanasia (anche se ci vollero altri due anni perché il paziente morisse)».
Chuck Klosterman è nato quattro mesi prima di me, e forse questa coetaneità contribuisce a farmelo ritenere il più importante critico culturale vivente: mi pare fosse Bufalino che diceva che l’amicizia tra lui e Sciascia era fondata sulla cosa più importante che leghi due persone, cioè l’essere coetanee; figuriamoci poi quando si tratta di cultura popolare: se non abbiamo consumato le stesse cose nello stesso momento, difficilmente avremo uno scambio paritario.
Siamo, Klosterman e io, la prima generazione cresciuta dentro il pop: non esisteva prima che lo inventasse la generazione dei nostri genitori, per la quale era un gusto acquisito; e infatti, di Lucio Battisti abbiamo più nostalgia noi, che praticamente non ne siamo stati coevi, di quanta ne avessero loro. I nostri genitori hanno inventato il pop, noi abbiamo inventato la nostalgia per il pop d’una volta.
Chuck Klosterman è anche il Corrado Guzzanti d’America: quello che non si tiene un lavoro neanche se lo leghi, e ogni volta che ci concede un libro è una festa, ma le feste sono infrequenti. Adesso ha pubblicato “The Nineties”, che se c’eravate è un libro fondamentale e se non c’eravate magari è la volta che imparate qualcosa. Tra le altre cose, “The Nineties” è un libro leggendo il quale capisci che senza passato non decodificherai mai il presente, ma dovrai accontentarti dei dieci secondi che te ne offre TikTok.
Non capisci quanto le cose siano cambiate in seguito alla tv ventiquattr’ore su ventiquattr’ore, alle notizie a ciclo continuo, se nessuno ti fa notare che il caso OJ Simpson catalizzò l’attenzione del mondo per sedici mesi (adesso, quando i giornali si occupano d’un caso di cronaca per qualche giorno, i miei coetanei sbuffano annoiati; i giovani no: mica leggono i giornali).
Non capisci quanto sia straniante il moralismo su “American Beauty” se non sai che all’epoca venne considerato un sommo capolavoro (dimentico sempre chi fosse l’unico lucido, ma ricordo come l’avessi letta ieri la sentenza: se una scena come quella dei petali la girasse Muccino, gli tireremmo i pomodori).
Non hai idea di che smania di legittimazione ci sia dietro al culto dei Nirvana se non sai contestualizzare quanto poco considerato fu il loro primo disco dal pubblico, e quanto trattato come robetta dalla critica: all’epoca, “Bleach” vendette quarantamila copie; dopo, due milioni.
Chuck Klosterman è americano, come avete capito dall’incipit: muro di Berlino a parte, non prende in considerazione granché di ciò che è successo fuori dall’America (a proposito: alla Kent State spararono sugli studenti che manifestavano contro il Vietnam; ad Altamont, un festival al quale suonavano i Rolling Stones, finì con un tizio armato che venne ucciso dal servizio di sicurezza: Klosterman dà per scontato che sappiate cose, io so che non sapete niente, qualunque età abbiate). Fa un po’ impressione leggere un libro sugli anni Novanta per il quale non è esistita la Cool Britannia.
Al cui proposito (di Britannia, dico): l’altro giorno Julie Burchill ha scritto sul Mail un articolo su quanto le mancano gli anni Ottanta, quando George Michael faceva amicizia con la principessa Diana, e ci si divideva tra fan degli Spandau e dei Duran. A quelli che oggi passano per popstar sexy, dice Burchill, all’epoca non avremmo neanche lasciato montare il palco.
E quindi, se sfogliate struggendovi foto di quando non si straparlava di body positivity ma Cindy Crawford sulle passerelle di Versace e di Dolce e Gabbana aveva cosce con le quali oggi la farebbero sfilare per le taglie forti (cosce che sono il doppio di quelle che ha lei stessa trent’anni dopo, il che non è naturale); se come Burchill sospirate che non può farvi impressione “50 sfumature”: eravate implumi quando c’era “Nove settimane e mezzo”; se siete retromaniaci, non è perché invecchiando si mitizza il proprio passato: è perché quel secolo lì è quello in cui abbiamo già fatto tutto, detto tutto, visto tutto. E questo qui, invece, è la copia di mille riassunti.