Un bilancio in chiaroscuro, quello che fa segnare la categoria dei vini rossi mossi. Ha dalla sua parte un’indiscutibile originalità espressiva, ma di contro paga spesso il prezzo di un livello produttivo che ne penalizza la qualità, e con essa il prezzo e la reputazione, innescando un circolo vizioso complesso da spezzare.
Ho voluto tastare il polso alla ristorazione d’alto livello, interrogando alcuni protagonisti assoluti della sommellerie nazionale, ma anche vagliando la situazione oltreconfine.
Voci dagli operatori
Nella cantina leggendaria
Alessandro Tomberli, direttore di sala dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze (tre stelle Michelin), forse la cantina più prestigiosa di tutta la Penisola, illustra bene la sfortuna che patisce la tipologia.
Qual è la sua opinione personale sui vini rossi frizzanti?
«È una tipologia che trovo piacevolissima e che apprezzo senz’altro, specialmente quando è legata a un dato contesto o a una cucina particolarmente adatta a valorizzarla».
Che rilevanza hanno nella vostra carta dei vini?
«Purtroppo sono vini assenti dalla nostra cantina, non perché non li ritenga validi ma perché non abbiamo una clientela interessata alla tipologia. Abbiamo storicamente sempre riscontrato una vera difficoltà a proporli. Forse ora, dopo due anni di pandemia, con una clientela meno straniera e più italiana, dunque più duttile su questo punto, si potrebbe pensare a qualche inserimento. Le nostre porte non sono chiuse».
C’è una denominazione di rosso frizzante che le sta particolarmente a cuore?
«No, perché non sono vini della mia regione, li ho conosciuti più tardi. Però penso che basti qualche esempio virtuoso – come nella zona del lambrusco, quella che conosco meglio –, per innescare un fenomeno di valorizzazione che consenta di recuperare il terreno perso».
In terra di Langa
Vincenzo Donatiello, storico sommelier in uscita di Piazza Duomo ad Alba (tre stelle Michelin), dove ha diretto la sala per nove anni, ha posizioni non molto dissimili, malgrado la sua personale inclinazione per la tipologia.
Qual è il suo rapporto personale con i rossi mossi?
«Molto buono, in particolare per quanto riguarda il lambrusco. Per me sono vini di gioia, vini di festa. È un rapporto che affonda le sue radici nei miei anni più giovanili, quando ci si divertiva tra amici con i vini della quotidianità.
Il panorama è dominato da grandi numeri e da una produzione di massa ma, specie sul lambrusco, esiste un underground molto stimolante, che merita di essere indagato».
Che posto hanno questi vini nella cantina di Piazza Duomo?
«Purtroppo molto limitato. In questo momento credo anzi che non ci sia proprio nulla. Ma solo perché i rossi frizzanti sono poco congegnali alla cucina dello chef Enrico Crippa, basata su materie prime molto fresche, vegetali, che creerebbero un rischio ridondanza con le durezze di questi vini».
Ci sono un vino o una denominazione rossi frizzanti “del suo cuore”?
«Senza dubbio i lambruschi del “Professore”, Vincenzo Venturelli. Ho avuto la fortuna di assaggiare bottiglie rimaste 25 o 30 anni sui lieviti, di un livello notevolissimo. Quanto al Piemonte, non posso dimenticare la Monella di Braida, uno dei vini che ai miei inizi ho sbicchierato più spesso. Oggi però con i problemi che sta incontrando la barbera con la flavescenza dorata [fitopatologia della vite, ndr], temo che per il panorama del frizzante piemontese si preparino tempi duri, purtroppo».
Il quadro muta leggermente se ci spostiamo all’estero, e anche se abbandoniamo la ristorazione per il comparto enotecario. Alcune criticità tuttavia permangono, e certi luoghi comuni restano duri a morire.
Ah, Paris…
Alessandra Pierini, titolare di RAP Paris, autorevole gastronomia ed enoteca italiana nella capitale francese, offre un riscontro più incoraggiante.
Da RAP si trova il lambrusco, il rosso frizzante italiano più famoso all’estero?
«Sì! In questo momento propongo quello di Camillo Donati, di Luciano Saetti, di Faragosa e di Fattoria Moretto, sia secco sia amabile».
Ha buoni riscontri?
«Lo vendiamo un po’ meglio da qualche anno e dal momento in cui le bollicine e soprattutto i “pét nat” [vini rifermentati spontaneamente in bottiglia, ndr] e anche il prosecco hanno fatto il loro ingresso nel panorama del consumatore francese, che prima beveva solo champagne. Purtroppo il lambrusco patisce ancora una fama di bevanda per feste studentesche, destinata a palati poco esigenti. La colpa è stata soprattutto della distribuzione che, per anni, ha messo sul mercato prodotti molto scarsi legati a una produzione industriale, che hanno trascinato questo vino sempre verso il basso. Tanti francesi pensano ancora che sia solo un vino molto dolce, con un basso tasso alcoolico, da bere freddo, un po’ come un sidro. Quello che li destabilizza è proprio il colore rosso con l’effervescenza: per loro è come se avessimo messo un alka seltzer in un vino».
Chi sono i clienti? Che aspettative hanno da questo vino?
«Abbiamo sia il cliente che lo ha assaggiato in Italia e che vuole condividere l’esperienza con la famiglia e gli amici sia il cliente che ci conosce bene e che si lascia consigliare. Tanti lo bevono come aperitivo: il frizzante è ancora difficile da introdurre a tavola. Oppure funziona bene per la pizza. Le vendite sono comunque ancora abbastanza sporadiche e c’è tanto lavoro da fare. È un vino che bisogna proporre sotto i 20 euro. Ora, perlomeno, non mi riportano più indietro le bottiglie dicendo che il vino era andato a male.
Un argomento che può aiutare nell’acquisto è che si sposa con la cucina emiliana, ricca di sapori e di grasso: salumi, lasagne, fritti e anche parmigiano, tutti prodotti molto conosciuti e amati. Il cibo rassicura il confronto con il vino insolito. Nel caso del lambrusco, parlare dell’abbinamento con il piatto funziona di più che parlare di vigna e di terroir».
The city that never sleeps
Se ci spostiamo Oltreoceano, incontriamo il racconto di Rosanna Chella, italiana trasferitasi a New York, dove lavora come wine consultant per Indie Wineries.
I dati dicono che il lambrusco è trainato sul piano internazionale dalle vendite in USA. Qual è la situazione dal suo punto di vista?
«Il lambrusco è molto amato dagli Americani. Insieme al prosecco, al chianti e al montepulciano d’Abruzzo è presente in quasi tutte le wine list di ristoranti, wine bar o negozi di vino di qualsiasi categoria e tipologia, italiani e non. Il suo consumo al bicchiere è più frequente che alla bottiglia».
Quali sono le aspettative o i preconcetti degli americani sul lambrusco?
«Negli anni Ottanta/Novanta, si pensava che il palato americano prediligesse un gusto dolce (sulla falsa riga di una Coca-Cola alcolica), quindi con una prima esportazione di lambrusco, poi sempre più massiccia, il prodotto inviato era più dolciastro rispetto a quello consumato nella zona di produzione. Più recentemente, la tendenza vede arrivare un lambrusco più varietale. Sulle promozione delle diverse varietà di lambrusco, invece, sul suolo americano c’è ancora molto da fare».
C’è spazio in USA per altri vini rossi frizzanti italiani?
«Negli ultimi anni i vitigni autoctoni stanno prendendo sempre più piede. Brooklyn ne è la patria: si trovano esercizi che forniscono una vasta e ricercatissima offerta. Gragnano, gutturnio e barbera frizzante sono facilmente reperibili».
Ritorno a Milano
Tornando in Italia, una sbirciata all’enoteca online di Peck, storica e blasonata gastronomia-enoteca di lusso di Milano, rivela un dato molto istruttivo. Se chiediamo all’ecommerce di disporre le etichette in vendita per prezzo crescente, scopriamo che le cinque più economiche in assoluto sono tutte di rossi frizzanti! A riprova che la tipologia subisce un posizionamento pesantemente condizionato dall’aspetto economico. In pratica produrre un rosso frizzante di altissima qualità, immaginando di venderlo poi a un prezzo proporzionato in tal senso, è quasi un’utopia.
Una manciata di nomi consigliabili
Lungi da un proposito di completezza né tanto meno dal voler stilare classifiche, ecco qualche idea per assaggiare rossi frizzanti di carattere e levatura.
Opzioni per il lambrusco e il Piacentino
Camillo Donati a Felino (PR) è un meritevole campione della tipologia. Il suo lambrusco Emilia IGT è un prodigio di pienezza, profondità, intensità, autenticità e anche capacità di invecchiare. Paga lo scotto – non certo qualitativo ma di immagine – di essere prodotto artigianalmente con uve di tale ricchezza che non sempre riesce a rifermentare compiutamente in modo spontaneo in bottiglia. Immaginate di dover proporre un lambrusco fermo o quasi! Eppure…
Cinque Campi. Vanni Nizzoli è, a Montecavolo (RE), l’autore di lambruschi veraci, senza mediazioni, selvaggi, vinificati in cemento e poi rifermentati in bottiglia, che incarnano molto bene una sana e premiante visione ancestrale di questo vino.
Paltrinieri. A Sorbara, nel Modenese, l’azienda Paltrinieri, oggi guidata da Barbara e Alberto, vanta una tradizione di famiglia pressoché secolare nella valorizzazione del territorio viticolo. Tra le varie etichette, che spaziano dal bianco al rosso passando per il rosa, si distingue la personalità netta de “Leclisse”, lambrusco vinificato in rosa, talora borderline con il rosso, fruttato e tagliente.
Lusenti a Ziano Piacentino (PC). L’azienda propone una gamma di rossi frizzanti interessante, nella quale spicca il gutturnio “Tournesol”, gustosa versione a fermentazione naturale in bottiglia.
Saccomani a Lugagnano Val d’Arda (PC). Stimolanti il gutturnio Doc e il vino rosso frizzante amabile “Rio Torto” (barbera, croatina, lancellotta, ciliegiolo), entrambi ottenuti da fermentazione spontanea in bottiglia.
Lombardia: la perla oltrepadana ma non solo
Barbacarlo. Lino Maga, scomparso da poche settimane novantenne, ha lasciato al figlio Giuseppe un patrimonio inestimabile: l’azienda e il vino fuoriclasse assoluti della tipologia. Il “Barbacarlo” porta il nome di un vigneto posto sopra Broni, sui primi ripidi rialzi dell’Oltrepò Pavese. È una bottiglia che ha sfidato il tempo e la legislazione enografica, ondeggiando tra la Doc e l’Igt per mere ragioni burocratiche, ma lasciando inalterato il proprio livello qualitativo ineguagliato. In vigna croatina, uva rara, vespolina. Nel calice un rosso brioso di struttura e complessità celestiali, che servirebbe non un articolo ma un libro per raccontare. Uno dei grandi vini rossi del mondo. Anche il “Montebuono”, l’altro vino dell’azienda, è di livello impressionante.
Andrea Picchioni, vignaiolo di Canneto Pavese (PV), incarna un ottimo livello di oltrepò rosso vivace, imperniato sulla bonarda, che risponde bene alle caratteristiche del territorio ed è lodevole per affidabilità e continuità espressive. Una realtà rappresentativa.
Antonio Panigada. Sarebbe un peccato transitare da San Colombano al Lambro (MI) ignorando l’azienda Panigada. Se tutti i vini prodotti sono di apprezzabile personalità, il “Banino rosso giovane” è la bottiglia che fa al caso nostro: barbera, croatina, uva rara e un pizzico di merlot a definire un vino pimpante, diretto e gioviale.
Corte Pagliare Verdieri. Se cercate un gratificante esempio di rosso frizzante dell’Oltrepò non pavese bensì mantovano, rivolgetevi con fiducia a Mimma Vignoli, verace e simpaticissima realtà di Commessaggio (MN), non lontano da Sabbioneta.
Sapori sabaudi
Vinchio-Vaglio. Questa cooperativa basata nei comuni omonimi dell’Astigiano sa proporre barbera e bonarda di qualità apprezzabile, di facile reperibilità e di prezzo assai abbordabile. Una buona chiave d’ingresso al territorio.
Nuova Cappelletta. Simpatica e godibile la barbera del Monferrato “Vispa”, prodotta da questa azienda bio di Vignale Monferrato (AL).
Gaudio – Bricco Modalino. È uno dei rappresentanti più significativi del Casalese. La sua barbera del Monferrato Doc è prodotta in autoclave, e mantiene 1 bar di sovrappressione in bottiglia che la rende vivace.