Carlo Veronese, direttore del Consorzio tutela vini dell’Oltrepò Pavese, riassume efficacemente la questione: i «dati evidenziano ancora una volta un Leitmotiv sbagliato della narrazione diffusa dentro e fuori dal nostro territorio, ovvero che tutti vorrebbero fare vini importanti, che i prodotti su cui dovrebbe puntare la Denominazione sono i rossi fermi e il metodo classico, mentre in realtà molte aziende vivono con il fatturato dei vini frizzanti»[1].
In quest’affermazione c’è quasi tutto ciò di cui occorre parlare: 1) il discredito nel quale è caduta la “narrazione” legata ai vini rossi mossi; 2) l’idea che i vini “importanti” siano rossi fermi (sottinteso di struttura e longevità), o tutt’al più gli spumanti metodo classico; 3) la stretta connessione che il mondo del frizzante ha istituito con il fatturato derivante dalla quantità.
Così, quanto meno nell’immaginario collettivo italico, il rosso frizzante vive di un’identità dequalificata, dozzinale se non plebea, e va tutt’al più relegato a certe “simpatiche” circostanze gastronomiche bonarie. Ma resta un vino di serie B. Considerando che la tipologia è appunto pressoché appannaggio della produzione enoica italiana, questo approccio significa ignorare quale perdita rappresenti non valorizzarla. Certo: non è sempre scontato fondere acidità, tannino e anidride carbonica in modo raffinato, gustoso ed equilibrato, ma quando questo accade il risultato è appagante e lodevole in termini di gradevolezza gustativa e originalità espressiva. Anche perché, servito fresco (12-14 °C), ma non obbligatoriamente giovane, il rosso frizzante è ad esempio un lasciapassare difficilmente eguagliabile nei mesi estivi. Alla faccia della marginalità.
Genesi di un equivoco
Si sa che scrollarsi di dosso un’immagine consolidata nel tempo non è un’impresa agevole. Il rosso frizzante deve probabilmente la sua genesi a una vinificazione mal padroneggiata, d’impronta casalinga. Nelle regioni dell’Italia settentrionale l’arrivo piuttosto precoce dell’autunno sorprendeva il mosto in una fase di incompiuta fermentazione. Il freddo dell’inverno bloccava tutto e, quando a primavera i primi tepori permettevano allo zucchero rimasto nel vino di completare il processo, questo spesso avveniva in contenitori chiusi (botticelle, damigiane, bottiglie), facendo sì che l’alcol e l’anidride carbonica prodotti dalla fermentazione restassero imprigionati.
Il rosso vivace nasce dunque da una sorta di piacevole “incidente di percorso”, che peraltro condivide con altri vini, ad esempio lo champagne ai suoi primordi. Se però per motivi storici, geografici, politici, economici e congiunturali, lo champagne ha saputo tramutare un “difetto” in un travolgente argomento di marketing, nel caso del vino rosso la spuma è rimasta un marcatore di cultura popolare, quasi proletaria. Quando poi, specialmente negli ultimi decenni, la nozione dei “grande vino rosso” ha iniziato a democratizzarsi e a diffondersi fuori dalle élite benestanti, il modello sono stati vini impostisi da tempo sulla scena mondiale – il bordeaux su tutti –, ma comunque sempre rossi fermi.
Questo complesso concorso di cause ha decretato la marginalizzazione culturale del rosso vivace, innescando un circolo vizioso di scarsa valorizzazione: immagine di mediocrità, dunque prezzo basso, dunque modesta cura e scarsi mezzi per produrlo, dunque livello qualitativo mediamente scoraggiante. Almeno questa è spesso la percezione comune. Questa tipologia ha quindi cercato rifugio in quei segmenti di mercato disposti ad accoglierla, primi tra tutti la grande distribuzione e l’export. Proprio il successo nelle esportazioni dovrebbe far riflettere sulle potenzialità di questi vini, a iniziare appunto dalla fortuna che ha l’Italia nel detenerne il quasi monopolio produttivo.
La scarsa cura che, negli anni, si è profusa per traghettare il rosso mosso dalla produzione di una bevanda quotidiana di fattura sovente approssimativa verso un vino di maggior pregio è probabilmente l’unico responsabile di un livello qualitativo e di una nomea che lo confina in una posizione scomoda e immeritata. Tecnicamente, ossia sul piano del gusto, non sussiste di per sé alcun motivo per ritenere che un rosso brioso debba essere “inferiore”.
Cosa, dove, quanto
Come detto, la cultura del vino rosso mosso è intimamente legata al nord Italia. Tranne rare eccezioni scarsamente rappresentative, la frizzantezza colorata non valica la linea degli Appennini. Le quattro regioni più significative sono Piemonte, Veneto, Lombardia e soprattutto Emilia-Romagna, la vera patria del vino mosso (il 53% di tutti i frizzanti prodotti nel Belpaese).
Il fenomeno Lambrusco
Proprio l’Emilia (assai più che la Romagna) fa la parte del leone, erigendosi a campione nazionale della tipologia. È ovviamente il lambrusco, nelle sue varie declinazioni, a trainare il comparto. Se le versioni bianche o rosate ottenute dalle diverse sotto-varietà di lambrusco sono ormai piuttosto diffuse – rispettivamente l’11% e il 14% – il colore rosso rimane il punto di riferimento dei vignaioli parmensi, reggiani e modenesi. Sono lambrusco quasi due bottiglie su tre di rosso frizzante prodotte in Italia! Tra le varie Doc e Igt che fanno capo al sovrano d’Emilia, spadroneggia incontrastata una Indicazione geografica tipica, Emilia Lambrusco, che da sola rappresenta un terzo della produzione di tutti i vini frizzanti italiani. Un mastodonte da 126 milioni di bottiglie nel 2020 [2], che rappresenta una delle due locomotive tricolori anche nel mondo, assieme al prosecco. Una tendenza in crescita costante quanto a valore, anche a fronte di un calo della produzione rispetto ai fasti di una decina d’anni fa. Se sommiamo questa Igt alle 6 Doc emiliane (Modena, Grasparossa di Castelvetro e Reggiano su tutte), i numeri sono ancora più impressionanti: oltre 161 milioni di bottiglie certificate lo scorso anno. A questi dati andrebbe aggiunto anche un altro lambrusco, tecnicamente lombardo: quello mantovano (1,3 milioni di bottiglie).
Ma dove va a finire questo mare di vino? Il 60% circa del lambrusco prodotto è destinato all’estero, ma non conta più tanto sui mercati tedesco e spagnolo (ancora importanti benché in flessione), quanto sulla galassia italo-americana d’Oltreoceano (una bottiglia su tre) e su nuovi, talora insospettabili sbocchi: il Messico, la Russia, il Portogallo o l’Europa dell’Est (Repubblica Ceca e Ucraina).Insomma, se nei supermercati nazionali il lambrusco non riluce di una reputazione aurea, per la bilancia commerciale del Paese ha di certo un qualche valore.
Colli Piacentini
Il lambrusco non è il solo protagonista della tipologia in Emilia. Anche se i numeri non sono neanche lontanamente paragonabili, il peso della tradizione e della cultura del vino mosso nel Piacentino è considerevole e ruota attorno a due vitigni principali: la bonarda e la barbera. La prima, detta anche croatina, è protagonista due volte: nella Doc Colli Piacentini Bonarda (4 milioni di bottiglie nel 2021 [3]) e soprattutto nel Gutturnio Doc (ottenuto da un assemblaggio di barbera e croatina – 8,1 milioni di bottiglie). La barbera, oltre a partecipare al Gutturnio, possiede anche una propria versione frizzante come Doc Colli Piacentini (870.000 bottiglie). In entrambe le Doc l’incidenza della tipologia frizzante è notevole: attorno all’80% di tutto il vino imbottigliato! Peraltro, i dati del Consorzio sembrano appurare una curva stabilizzatasi negli anni più recenti, dopo un arretramento rispetto a un decennio fa. Insomma: il brio piacentino ha il suo zoccolo duro.
Lombardia: Oltrepò Pavese e non solo
Un po’ come il suo vicino piacentino, anche l’Oltrepò Pavese, che ne condivide il territorio pedemontano dell’Appennino settentrionale, ha un’identità viticola un po’ arlecchinesca: sono ben 41 le tipologie Doc o Docg che vi si possono produrre, con relativi nomi! Tuttavia, nell’immaginario comune – e soprattutto in quello milanese, tradizionale bacino commerciale per quest’areale –, il rosso spumoso rimane probabilmente la versione più iconica. In Oltrepò si possono etichettare quattro denominazioni d’origine con questa tipologia (senza scordare l’Igt Provincia di Pavia, ben 10 milioni di colli!): ritroviamo la Bonarda, che tra i frizzanti è di gran lunga la più rappresentativa (14 milioni di bottiglie nel 2020 [4] – 9% della produzione nazionale di rossi briosi), la Barbera, il Buttafuoco (quasi sempre fermo, ma raramente anche mosso) e il peculiare Sangue di Giuda, fatto con barbera, croatina, uva rara, ughetta e volendo anche pinot nero, e che ha la particolarità di essere frizzante ma anche dolce! Un controsenso? Tutt’altro! Dimentichiamo troppo spesso quanto zucchero e tannino possano andare a braccetto! Si tratta forse di un residuato della rocambolesca genesi storica della frizzantezza, ma è così piacevolmente godibile! Peraltro, non dimentichiamo che anche le tipologie più note per i loro rossi frizzanti secchi accolgono talora venature più o meno pronunciate di dolcezza.
Per restare in Lombardia, nel pieno della tradizione rossista frizzante del medesimo comparto geografico-culturale, vale senz’altro la pena ricordarci di San Colombano, curioso rialzo collinare nel mezzo della pianura lodigiano-pavese, che in occasione del referendum locale del 1995 decise di non aderire alla neonata provincia di Lodi ma di restare sotto la “signoria” di Milano, rimanendo così di fatto l’unico vino Doc meneghino. Qui le uve del rosso sono comuni con il cugino pavese: bonarda, barbera, uva rara. Poca cosa (60-70.000 bottiglie l’anno), ma storia e sapore.
Il Veneto popolare
Se oggi dici vino veneto si impone immediatamente un nome, specialmente quando sono chiamate in causa le bollicine: il prosecco. Ma la regione della Serenissima possiede anche una tradizione di rossi vivaci. Una tradizione che oggi vale quasi 6 milioni di bottiglie l’anno. Se è difficile ricordare un vitigno che spicchi particolarmente in questo specifico segmento di produzione nazionale, molto improntato a un consumo locale e ordinario, a qualcuno dirà pur qualcosa il nome del raboso.
Il Piemonte: un declino del frizzante?
Il territorio sabaudo rientra di diritto nella grande area nord-italiana cui va ascritta una tradizione fondata e significativa di rossi mossi. Purtroppo, però nessuna delle non poche denominazioni d’origine rosse frizzanti piemontesi spunta oggi numeri davvero impattanti. Tutta la produzione regionale della tipologia ammonterebbe a complessivi 2,6 milioni di bottiglie annue. E se probabilmente denominazioni come Piemonte Bonarda frizzante o Freisa di Chieri frizzante destano l’attenzione solo di qualche intenditore o addetto ai lavori, il nome della Barbera frizzante del Monferrato farà accendere la lampadina non solo ai romantici nostalgici di Giorgio Gaber. La produzione, per quanto altalenante in base all’andamento meteo delle annate, si rivela piuttosto stabile [5], a conferma di un interesse che non scema, nonostante numeri ormai quasi ascrivibili a una nicchia.
1 Cfr. “Il Corriere vinicolo”, n . 26, 23 agosto 2021, p. 24.
2 Dati Consorzio Tutela Lambrusco Doc.
3 Questi dati e dati seguenti: Consorzio Tutela Vini DOC Colli Piacentini.
4 Questi dati e dati seguenti: Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese.
5 Tra 300 e 400mila bottiglie l’anno la media dell’ultimo quinquennio per Piemonte Bonarda, Piemonte Barbera, Freisa d’Asti – dati Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato.