Mentre si avvicinava l’Anniversario della Liberazione ascoltavo o leggevo le opinioni di algidi aedi putiniani dagli occhi di ghiaccio chiedere le prove per attribuire all’esercito d’invasione russo l’eccidio di Bucha e le stragi di civili commesse in Ucraina. Forse è per questo che – qualche settimana dopo i fatti di Bucha – partecipando all’inaugurazione di una piazza dedicata ai 12 civili assassinati dai nazisti e dai repubblichini il 13 aprile del 1944 a Calvi dell’Umbria, il borgo nel quale vivo da qualche anno, mi sono domandato se in quella lontana storia potesse esservi qualche insegnamento valido anche oggi.
La strage di Bucha, per gli aedi di Putin, non è mai esistita. Quella di Calvi, allora territorio della Rsi, fu presto dimenticata. Una lapide posta sul luogo dell’esecuzione nell’inverno del 1944, poi l’oblio. Fino alla meritoria intitolazione di una piazza voluta dall’attuale sindaco Guido Grillini.
A squarciare il velo fu la scoperta del cosiddetto Armadio della Vergogna, dove nel 1994 il procuratore militare Antonio Intelisano, che indagava sui crimini del capitano Herbert Priebke, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, scoprì 695 dossier immotivatamente insabbiati nel 1960 sui crimini commessi dai nazifascisti nel 1943/45.
Quella di Calvi dell’Umbria era una delle stragi insabbiate. Per il numero delle vittime e la crudeltà dei modi, tra le più feroci. Furono accertate le responsabilità dei caporioni fascisti locali: Giunio Faustini, il figlio Vittorio e Bruno Proietti e di ignoti militari tedeschi, ma, a causa di quell’archiviazione, non si giunse mai a un processo.
Nel piccolo borgo medievale arrampicato sulla collina e dominato dal monte San Pancrazio oggi molto è cambiato, ma non tutto. I muri attorno alla piazza, per esempio, ospitano i murales sulla natività dipinti da tanti artisti a partire dal 1982. I luoghi dove tutto è avvenuto, tuttavia, racchiusi in poche centinaia di metri, sono ancora lì: la Chiesa di Santa Brigida che domina la piazza, così come il convento delle Orsoline subito dietro, e i palazzi antichi. «Vedi quella casa dopo l’arco? Qui c’era l’abitazione e la locanda di una famiglia che fu sterminata, e lì il negozio del barbiere, fucilato anche lui e in quell’angolo, dove ora c’è il minimarket, c’era la caserma dei carabinieri dove furono trattenuti i prigionieri. E questo, dove ora c’è una lapide è il luogo dove furono fucilati». Mi racconta Ugherio Stentella, che da anni, insieme ad altri, tiene viva la memoria di quella strage.
Ho cominciato a interessarmene grazie al mio compianto amico Nevio Bacocco, scomparso a causa del Covid nel febbraio del 2021. Nevio, insegnante, ma soprattutto maestro di vita, con i suoi ragazzi ha raccolto le loro storie, oltre otto ore di interviste ai sopravvissuti e ai discendenti delle vittime.
Durissima e feroce la primavera del 1944 sull’appennino umbro, logisticamente strategico per l’esercito nazista che risale verso nord. La zona montuosa tra le province di Terni e Rieti è teatro di stragi feroci come quella di Leonessa, il 7 aprile. Tra il 12 e il 14 l’esercito nazista attua l’operazione “Osterei” (Uovo di Pasqua) contro le Brigate partigiane che rendono difficile la ritirata. Tra Narni, Otricoli, Poggio operano le brigate “Gramsci” e “Manni che il 12 sul Monte San Pancrazio ingaggiano uno scontro nel quale diversi di essi cadono. Nel corso del rastrellamento, nazisti e i fascisti fermano circa centro civili. Tre agricoltori (Pielicè, Pettorossi, Carofei), sono assassinati nella frazione di Santa Maria della Neve, il giorno stesso. Gli altri, sono portati nella caserma dei carabinieri. Dodici di essi sono scelti per la fucilazione, la lista è compilata dai fascisti locali.
Ecco l’alba del 13 aprile. Ecco il nostro Spoon River, nella storia di ognuno di quei dodici: «Adolfo, Emilio, Gino, Ernesto e Genesio Guglielmi, quest’ultimi di appena 16 e 17 anni, un’intera famiglia o quasi – racconta lo storico Sergio Bellezza che, insieme a Ugherio Stentella studia da anni i fatti – A scampare alla strage soltanto uno dei fratelli, che al momento del rastrellamento si trovava in campagna dalla fidanzata. La famiglia Guglielmi conduceva a Calvi un piccolo albergo e dava asilo, secondo l’accusa, a elementi partigiani. Inoltre, Emilio, richiamato come carabiniere dopo l’8 settembre, si sarebbe dato alla macchia con altri antifascisti, cui la famiglia forniva vivevi e dava assistenza».
Il professor Bellezza racconta anche un particolare agghiacciante: «Per fare in modo che i due ragazzi, Ernesto e Genesio, potessero essere fucilati insieme agli adulti dovettero issarli su due massi, perché i due adolescenti erano notevolmente più bassi».
E poi gli altri, ognuno dei quali aveva mille ragioni per vivere e una sola per morire: essere antifascisti o partigiani o essere denunciati dai delatori fascisti come tali: «Il dott. Salvati, medico condotto del Paese, ufficiale medico nei campi di concentramento di Vetralla, Colfiorito e Passo Corese. Dopo l’armistizio era tornato a Calvi, dove esternava liberamente i propri sentimenti antifascisti e prestava cura a elementi partigiani e militari alleati. Il barbiere del posto, Liberato Montegacci, noto oppositore al regime; Fabrizio Fabbri, fucilato perché gli erano state trovate in casa alcune cartucce durante la perquisizione. In realtà s’era sempre rifiutato di fornire viveri alle truppe tedesche e ai repubblichini. Ernesto Sernicola era invece ritenuto un collaboratore dei partigiani e accusato d’aver nascosto 8 inglesi fuggiti dai campi di prigionia. I documenti non riportano le imputazioni a carico di Mario Ranucci, Antonio Lieto e Olindo Landei, il primo da poco residente a Calvi, ma nativo di Greccio, gli altri rispettivamente di Casapulla e Contigliano. Il fatto che non fossero del posto lascia pensare che si trattasse di combattenti alla macchia».
Conclude il professor Bellezza: «Rimangono i fatti dolorosi e cruenti, che fin d’allora testimoniano il dramma della guerra e la barbarie degli uomini. Esperienze che pensavamo d’aver ormai consegnato alla storia, ma che stiamo rivivendo con l’attacco all’Ucraina da parte della Russia di Putin».
Mi domando cosa penserebbero gli adolescenti Ernesto e Genesio se ascoltassero in tv un Narciso che insegna storia dell’arte dire che i giovani italiani presero le armi perché erano sicuri della vittoria, grazie all’appoggio degli angloamericani, mentre i giovani ucraini di oggi sono solo dei suicidi? Caro professore, venga qui, ascolti queste storie e si chieda se davvero, in quella tragica primavera del 1944, fosse tutto così facile come oscenamente afferma lei per giustificare il fatto che non bisogna dare armi ai resistenti ucraini.
Quanto al capire da che parte stiano i nazisti in Ucraina, basti pensare che così come oggi Putin premia gli autori del massacro di Bucha, nel 1944 Hitler insignì delle massime onorificenze i soldati del gruppo di combattimento Schanze, autori degli eccidi sulle montagne umbre.
Le basta, presidente Pagliarulo?