Le commedie romantiche sono morte, ma anche la finzione narrativa in generale non se la passa granché bene. Della morte della commedia romantica ha dovuto dirci, pensa te, Julia Roberts. Che, in un’intervista al New York Times, ha detto di non averne più fatte perché non le sono più arrivate belle sceneggiature. Il che dev’essere una notizia, visto che la riprendono tutti da tre giorni: ma finora non ci eravamo accorti che il genere è morto?
Forse no, d’altra parte di quel che accade nel settore non sembrano accorgersi granché neanche quelli che fanno critica specializzata: The Ringer, rivista americana con velleità culturali, ha pubblicato una classifica delle cinquanta migliori commedie romantiche della storia. Certo che queste classifiche si fanno sperando nella polemica e più sbagliate sono più funzionano, però se nella lista ci sono “Amélie” e “Come farsi lasciare in dieci giorni” e praticamente qualunque porcheria prodotta dagli anni Novanta in poi, ma non ci sono “Susanna” o “Scandalo a Filadelfia” o “La signora del venerdì” o “Un amore splendido” o “Il letto racconta”, viene il sospetto che non si tratti di furbizia polemista ma di voragini di lacune.
Che poi non è necessariamente vero, che la commedia romantica sia morta. Certo non è un’epoca in cui i flirt siano cinemagenici: come li rendi, sullo schermo, due che stanno su Tinder? Ma qualcosa si trova ancora, slittando come ormai per tutto dai film alle serie. La Bbc, per esempio, è alla seconda stagione di “Starstruck”, che è praticamente “Notting Hill”, ma quello famoso è lui, e lei è una ragazza con le braccia grosse. Che l’ha anche scritta, la serie, facendomi pensare tutto il tempo che se hai le braccia grosse i ruoli da protagonista o te li scrivi da sola o non te li danno (e anche che il divario sia più ampio che in “Notting Hill”, in cui la diva s’innamorava sì d’un libraio, ma quel libraio era pur sempre Hugh Grant).
All’inizio fatichi a crederci. Settimane fa, Paulina Porizkova raccontava a People che, al primo appuntamento, le càpitano uomini che ci tengono a dirle di non averla guglata, e lei gli ride in faccia: come si fa a crederci? La ragazza con le braccia grosse che incontra l’attore e non lo riconosce, e nessuno gli chiede una foto insieme per tutta la serata, e solo il mattino dopo lei si rende conto, ecco, non è credibilissima. Ma poi memorizza il numero di lui come «Tom Famoso», e tutto è perdonato.
“Starstruck” non è un miracolo perché è una commedia romantica: lo è perché è una storia di finzione. Vi sarete accorti che non se ne girano più. La stessa Roberts l’intervista al New York Times l’ha data per promuovere “Gaslit”, la serie sul Watergate in cui interpreta la tizia che inguaiò Nixon, la moglie del suo ministro della giustizia. Su Showtime è appena cominciata “The First Lady”, una porcheria in cui Viola Davis è Michelle Obama, Michelle Pfeiffer è Betty Ford, Gillian Anderson è Eleanor Roosevelt.
Ormai la tv è una versione pretenziosa del Bagaglino, fatta solo di sosia che non devono saper recitare: devono saper imitare qualcuno di cui ci ricordiamo in una storia che già sappiamo. Naturalmente più è vicina temporalmente la storia più siamo impietosi nello stroncare la mimesi: nessuno aveva niente da dire sul Churchill di “The Crown”, ma tutti avevamo un’opinione sulla Thatcher, io la vedevo al tg, mica era così. Gillian Anderson, massacrata come Thatcher lì, qui si mette al sicuro: mica abbiamo ricordi di come parlasse la signora Roosevelt, e quindi ci concentriamo su come Viola Davis rende la mimica facciale di Michelle Obama.
Sempre su Showtime è appena finita “Super Pumped”, la serie sulla nascita di Uber, mentre su Apple c’è “WeCrashed”, sulla nascita di WeWork, gli uffici in condivisione che sembrano l’ultima cosa su cui si possa costruire un’epica, e invece.
Vogliamo solo storie che siano successe davvero, per la stessa ragione per cui vogliamo vedere i cappuccini e le pizze e i bambini e i cani e le vacanze e la guerra e la pandemia su Instagram, e non leggere i romanzi o vedere i film o comprare i dischi di quelli che ci mostrano le loro pizze e i loro cani e i loro virus e le loro bandierine ucraine. Vogliamo il reality, anche – specialmente – quando siamo gente che si vanta di non aver mai guardato un reality.
Ieri da Ellen DeGeneres c’era Michelle Obama (quella vera, non quella della serie su un po’ di first lady a casaccio). Era lì per vendere non so neanche quale dei suoi prosciutti: uno dei titoli che lei e il marito producono per Netflix. Come tutti, ho smesso di ascoltare quando ha iniziato a parlare di quel che fa, mentre ascoltavo religiosamente finché parlava di quel che è: dei fidanzati delle figlie, di Barack che non raccoglie i calzini, di come le piaceva essere servita e riverita alla Casa Bianca («non è che mi mancasse cucinare», ha detto, e m’è sembrato un manifesto di femminismo deliziosamente estremo).
Persino io, che so che quel che sei in pubblico è una cosa che fai, che raccontare di tuo marito in tv è una performance tanto quanto produrre un documentario, persino io ci casco. Possiamo poi davvero meravigliarci se a Julia Roberts fanno fare la sosia del Bagaglino in qualche vita vera, e non un nuovo Notting Hill? Persino alla neozelandese con le braccione, appena avrà più potere contrattuale, offriranno un film sulla vera vita di Lena Dunham, e darà interviste sull’aver dovuto imparare l’accento americano per interpretarla, e noi scuoteremo la testa: non le somiglia abbastanza.