Burro e cannoniIl Giuseppe Conte di lotta è simile a quello di governo, ma senza pochette

Le frasi da leguleio di provincia sono sempre le stesse, ma il tono è più stridulo, l’accento pugliese non è più trattenuto e le mani che un tempo sistemavano la cravatta ora si stringono in pugni da sbattere sul tavolo. Predica un ritorno alle origini movimentiste, ma è difficile farlo quando uno dei tuoi esponenti è ministro degli Esteri

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La prosodia di Giuseppe Conte non è cambiata. Il suo linguaggio è sempre quello di un leguleio di provincia, pieno di deviazioni, di subordinate, di vaghezze inconcludenti. Un solo sostantivo torna insistentemente: cittadini.

Non è un omaggio inconscio ai sanculotti della rivoluzione. È il trait d’union con il populismo, la chiave di ingresso nell’immaginario delle evocazioni che, in particolari condizioni favorevoli, producono voti, in altre solo sbadigli.

Quella che è cambiata è la prossemica, cioè il linguaggio del corpo, la distanza tra lui e i suoi interlocutori. Si è tolto il fazzoletto dal taschino, la cravatta e persino la giacca. Parla in maniche di camicia, peccato che sia di sartoria. Non tutti i cittadini se la possono permettere.

Può bastare per colpire l’attenzione, ma c’è di più: batte la mano, non i pugni – poco consoni a un dandy – su un tavolo che rimbomba.

La voce un po’ rauca che in Claudia Cardinale è tanto sexy, qui diventa stridula, l’accento pugliese non è più trattenuto.

Per spettatori abituati al vuoto, questo è già un bel pieno. Merita attenzione. Ti accorgi subito che quasi tutte le frasi sono le stesse di sempre, ma Casalino può essere fiero del suo allievo. Stavolta qualcuno si accorge di lui. Era un Conte di governo, ora è un Conte di lotta. Lo si vede dal ciuffo, un po’ scomposto.

Con chi ce l’ha? Con Mario Draghi non può prendersela (e se ci prova, l’altro lo smonta, dandogli del guerrafondaio che ha aumentato le spese militari del 17% in piena pandemia), da Sergio Mattarella corre subito a giustificarsi, ripiegando di nuovo per bene il fazzoletto nel taschino.

Ce l’ha con il PD, e questa è già una piccola notizia. Diventa un notizione quando spiega che i Cinquestelle non sono la succursale del Partito di Letta.

Questa davvero ci spiazza. Avevamo passato mesi a temere che fosse il Pd ad avere quel ruolo. 

In fondo glielo aveva assegnato Goffredo Bettini, alla ricerca di un leader per il progressismo nazionale, visto che Nicola Zingaretti si era vergognato e che Letta era troppo moderato, o tale si era dimostrato in passato.

Nella sua visione semplicistica e improvvisata della politica, imparata sul bigino che gli aveva passato l’amico Alfonso Bonafede, Conte ha immaginato – tra un ricorso e l’altro contro di lui – di aver in tasca la ricetta per trasformare un ronzino in un cavallo da corsa, scegliendo il nervo scoperto del pacifismo d’ordinanza che alberga nel cuore di qualunque militante di sinistra.

Per un attimo ci è anche riuscito, perché in casa PD la psiche è ancora un convitato importante, e certe reazioni sono pavloviane, in questo caso comunque utili, perché per la prima volta anche Enrico Letta si è innervosito: mica questo Conte tanto amico vorrà portarci via dei voti, e cosi la larghezza del campo non cambia? Forse sarebbe il caso di indire un’agorà sul tema?

Poi, però, riemerge la professionalità, che in casa PD non manca, e qualcuno si ricorda quella che è la lezioncina del primo giorno alla scuola di partito. Tema: burro o cannoni? Svolgimento: un partito serio non metterà mai in alternativa questi due termini. Al test di populismo, alle Frattocchie ti bocciavano, ricordandoti subito che la Costituzione vieta il referendum sulle tasse e sui trattati internazionali. È il minimo sindacale di uno stato democratico.

Secondo Giuseppe Conte, il burro contro i cannoni (o le bollette da ristorare contro i bullets, i proiettili) è invece nel dna del Movimento a cui si è (forse) appena iscritto, e dunque bisogna tornare alle origini.

E giù retorica su come era bello lo stato nascente populista, unico rimedio a questo «ritorno di iperliberismo e austerità» che secondo lui sta imperando, con la scusa della guerra. Risultato dell’operazione: un sondaggio benevolo segna +0,1%. Ma gli addetti ai lavori di mezzo mondo si fanno delle domande.

Sarebbe comico, questo scomposto oltranzismo del capo di un partito che ha il ministro degli Esteri a rappresentarlo al governo, se non fosse che la situazione è grave ma anche seria.

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