Il settore automobilistico italiano si trova di fronte a una grossa sfida: dismettere entro il 2035 la vendita dell’auto con motore endotermico, quello che utilizza il diesel o la benzina, e passare alle auto elettriche. L’obiettivo di questa transizione ecologica, come indicato dalla Commissione Europea, è quello di ridurre significativamente il livello di CO2 nell’ambiente. Per raggiungerlo, però, sarà necessario trasformare il motore elettrico in una tecnologia matura, in grado di offrire le stesse garanzie di autonomia e prestazione dei motori endotermici. Un cambiamento complesso che imporrà cambiamenti anche sul fronte del mercato del lavoro.
La situazione della filiera italiana
«Per il settore dell’auto si tratta di una rivoluzione, che però io definisco pianificata», commenta Marco Taisch, professore di Digital Manufacturing, Sustainable Manufacturing and Operations Management al Politecnico di Milano ed esperto del mercato automotive. «Infatti, c’è il tempo sufficiente per poterla compiere senza fretta e non ci coglie impreparati perché gli aspetti tecnologici delle auto elettriche sono già in fase di sviluppo avanzato, pur avendo i limiti che tutti conosciamo. Inoltre, la transizione ecologica è una scelta di tipo politico, che non è stata richiesta solamente al settore delle auto, ma a tutta l’industria in generale».
Tuttavia, il mercato del lavoro del settore auto è agitato da questa trasformazione, colpito anche dalla carenza di microchip e dai rincari sulle materie prime. Oltre che da due anni di pandemia, che hanno visto crollare le vendite.
Diverse aziende del settore hanno già annunciato tagli al personale: Bosch ha annunciato 700 esuberi nello stabilimento di Bari e Marelli ha comunicato ai sindacati il rischio per 550 dipendenti. I rischi coinvolgono anche molte piccole e medie imprese che si occupano della componentistica e fanno parte dell’indotto automobilistico.
L’Anfia, Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, sostiene che l’Italia rischia di perdere, da qui al 2040, circa 73mila posti di lavoro, di cui 67mila già nel periodo 2025-2030. Il Ministero dello Sviluppo Economico, tramite una mappatura della filiera della componentistica italiana, evidenza come ci siano ben 101 imprese a rischio.
«Rispetto all’auto tradizionale», spiega Taisch, «quella elettrica è un veicolo molto più semplice dal punto di vista della quantità di componenti meccaniche richieste. Ciò creerà forti problemi in Italia, dove molte imprese sono attive proprio nel settore della componentistica. E il discorso comprende regioni e distretti su tutto il territorio geografico. Ci sarà quindi la necessità di ripensare a nuove competenze per molti lavoratori».
Un semplice esempio è offerto dal motore. Da un punto di vista meccanico, quello elettrico è molto meno ricco di elementi: la frizione, il cambio e i sistemi di lubrificazione non sono presenti.
I cambiamenti necessari
Il governo Draghi ha recentemente creato un fondo, con risorse da 1 miliardo l’anno per otto anni, che prevede incentivi anche per la formazione del personale.
Un’altra possibilità per attutire gli effetti sull’occupazione è quella di indirizzare i lavoratori verso altri settori manifatturieri. Una opportunità concreta specialmente per le risorse meno specializzate sull’automotive, ma qui entra in gioco un fattore fondamentale, ovvero le dimensioni del mercato dell’auto, come ricorda Taisch. «Il settore automobilistico è tra quelli che impiegano più persone a livello globale e questa grandezza rende complesso riallocare tutti i lavoratori», spiega il professore. «Quando esso subisce delle modifiche ne risentono tutti gli altri. Infatti, non è un caso che i governi, quando devono riattivare l’attività economica, prevedano incentivi per il settore dell’auto: è quello che ha un impatto maggiore».
A questo va aggiunto che il tessuto industriale italiano è composto da distretti industriali estremamente specializzati, densi di competenze e con un fortissimo legame con il territorio. Questo comporta che, quando un settore in cui è attivo il distretto entra in crisi, riconvertire quell’intera zona geografica – spesso grande come una provincia – è molto complesso e richiede l’intervento di più livelli amministrativi.
Taisch riporta alcuni esempi. «L’Emilia-Romagna presenta un’ampia diversificazione industriale e avrà quindi meno difficoltà ad avviare la transizione, sebbene sia molto focalizzata sul settore automobilistico tanto che commercialmente è sempre più frequente la dicitura Motor Valley. Invece, alcuni distretti estremamente monotematici, frequenti in alcune zone del Sud Italia, avranno maggiori difficoltà a riconvertirsi».
Per l’Italia, sarà fondamentale, nei prossimi anni, lavorare sulla formazione e sulla digitalizzazione delle competenze e delle imprese. «Il Pnrr è un ottimo strumento, il cui orizzonte temporale è però minore rispetto a quello con cui lavora il settore automobilistico», spiega Taisch. «Tuttavia, lo Stato può agire sulla ricerca industriale, consentendo di scaricare i costi della ricerca e sviluppo: anche perché l’Italia è uno dei Paesi con la più bassa spesa per la ricerca in Europa. Questo favorirebbe sia le imprese, rendendole più dinamiche, sia i lavoratori, che amplierebbero il bagaglio di conoscenza. È poi necessaria una politica industriale ben definita».
La transizione ecologica verso un futuro a zero emissioni offre molte opportunità. Bisognerà, insomma, saperle cogliere. Secondo il report di McKinsey “The net-zero transition: What it would cost, what it could bring”, che analizza la portata dei cambiamenti economici necessari a raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette, la conversione ecologica – a livello globale – potrebbe creare un saldo positivo di 15 milioni di nuovi occupati entro il 2050, se gestita con successo.