Ieri la Farnesina ha cacciato trenta diplomatici russi, come Francia, Germania, Danimarca. Una misura – ha detto Luigi Di Maio – per difendere la sicurezza del nostro Paese. Una scelta forte, peraltro contestata dalla Lega e (infatti) duramente condannata da Mosca che ha promesso ritorsioni: significa un colpo forte alle relazioni diplomatiche tra Italia e Russia.
È un atto in linea con la sacrosanta intransigenza del governo e del Parlamento italiano di fronte alla guerra di Putin, alla sua escalation che ha nella strage di Bucha l’imperituro marchio di infamia, una posizione intransigente che vede il ministro degli Esteri perfettamente allineato con Mario Draghi, Lorenzo Guerini ed Enrico Letta, cioè gli adulti che hanno collocato l’Italia dalla parte giusta della Storia, a fianco di Kiev e solidamente dentro la Ue e l’Alleanza atlantica.
Ci si potrà chiedere cosa in pochi anni abbia portato Di Maio dalle sguaiataggini su Bibbiano alla declinazione di una linea seria dalla poltrona della Farnesina ma è più importante mettere in chiaro che questa doppiezza del Movimento Cinque Stelle diviso fra l’antiamericanismo di Giuseppe Conte e la fedeltà atlantica di Di Maio non potrà durare a lungo. Quando si trarranno le conseguenze di una contraddizione ormai insanabile tra i due?
Dato lo stato comatoso del Movimento già all’origine privo di una sana dialettica interna, il famoso chiarimento che Di Maio aveva chiesto con un certo impeto dopo i vari disastri contiani nella vicenda del Quirinale non c’è mai stato, quindi con l’aggressione russa all’Ucraina il ministro degli Esteri è stato chiamato a ben più gravosi compiti, sicché l’avvocato ha potuto e può, goffamente, spadroneggiare con la sua nuova linea antiamericana.
Che non si tratti solo di una bega interna è evidente.Il fatto che il leader della prima forza in Parlamento esponga tesi cerchiobottiste e sensibili al neutralismo non dovrebbe lasciare il titolare della Farnesina indifferente: si deciderà il giovane ministro a pretendere che il suo capo si allinei alla posizione del governo italiano almeno sulla guerra o continuerà a fischiettare?
C’è chi dice che se Di Maio aprisse una polemica con Conte sulla politica estera si arriverebbe a una spaccatura non ricomponibile, dunque all’uscita dell’uno o dell’altro dal Movimento – probabilmente più Di Maio, che ha meno truppe – una scissione che decreterebbe la fine del grillismo come fenomeno politico.
Ma a tanto Di Maio non vuole arrivare. Non è questo il suo piano. Per il momento il ministro tace, un silenzio assordante, come un monito inespresso eppure che tutti indovinano contro Conte, che – va ricordato – è stato confermato con un po’ di clic “presidente” del M5s e quindi legittimato da un voto che il ministro ha rispettato.
La sfida è solo rimandata. Dopo il silenzio verrà il momento di parlare. E quel momento cadrà un minuto dopo il risultato prevedibilmente catastrofico del Movimento alle amministrative del 12 giugno.
Quando le prime proiezioni decreteranno la marginalità del partito di Conte in tutte le città dove si sarà votato: potrebbe esserci un crollo vero, stavolta, e a quel punto Di Maio rilascerà le sue brave dichiarazioni. Che suoneranno, più o meno, come un invito all’avvocato di lasciare il suo posto per aprire un nuovo corso. Un nuovo corso che non potrà che essere guidato da lui, dal ragazzo di Pomigliano accreditatosi anche sul piano internazionale dove viceversa ormai si diffida dell’ex presidente del Consiglio.
Se dêbácle sarà si può scommettere che il grosso dei parlamentari grillini, il cui unico assillo è la rielezione in Parlamento, saranno pronti a scaricare l’avvocato del popolo e a sposare la causa un nuovo corso dimaiano certamente più unitario con il Pd (che conosce bene questo stato dell’arte) e solidale con il governo Draghi.
Potrebbe essere una cambiamento importante nella politica italiana. Una cosa è certa: se il piano del ministro degli Esteri sarà confortato dai fatti, l’avvocato Conte ha i mesi contati.