Né bellicismo né pacifismoLeggere Emmanuel Mounier per capire perché con Putin bisogna usare la forza

“I cristiani e la pace”, scritto dall’intellettuale francese nel 1939 e ora ripubblicato da Castelvecchi, è un testo fondamentale sulle ragioni che ci portano a combattere la tirannia per difendere i nostri diritti. Pagina dopo pagina, si scoprono tante analogie tra quell’epoca storica e la recente invasione russa in Ucraina

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«Anche Esprit è costretto al silenzio. Propongo come motto a Mounier a proposito della rivista e dei suoi amici: Vires acquirit tacendo… Lascio ad altri lo stupore. Io ho un animo così poco portato all’insubordinazione, alla protesta…». Con il suo tipico tono snob, così André Gide annotava nel suo Journal il 12 gennaio 1941. Di fronte alla chiusura della sua combattiva rivista Emmanuel Mounier per fortuna non tacque: non era nel suo spirito. Chi era, questo intellettuale francese? Era un personaggio notevole nel panorama culturale della Francia entre-deux-guerres, nella temperie del «mondo di ieri», come dirà Stefan Zweig, alla ricerca di un nuovo senso della storia umana.

È importante fissare il contesto storico nel quale si alzò la voce di Mounier, un contesto dominato dalle ferite della Prima Guerra e dal sentore, e poi dallo scoppio, della Seconda guerra mondiale, gli anni del grande travaglio dell’intellettualità e della cultura cattolica d’Oltralpe così bene illuminate dai grandi scrittori cattolici, da François Mauriac a George Bernanos, il più inquieto tra loro. E, pur senza eccedere, vorremmo a questo proposito anche sottolineare la qualità letteraria, con il suo fiammeggiante stile, di Mounier: alla stregua del Pascal «admirable écrivain», come di lui scrisse Saint-Beuve.

Senza la cornice di un mondo incapsulato come per un malefico sortilegio da due guerre si smarrirebbe la ragione della centralità del concetto di pace che anima una parte importante – anche se non esaustiva – del suo pensiero. Bene dunque la ripubblicazione de “I cristiani e la pace” (prefazione di Stefano Ceccanti, introduzione di Giancarlo Galeazzi – Castelvecchi), testo scritto nel 1939, dunque all’indomani di quella catastrofe di Monaco che aprì la strada alla folle avventura hitleriana. Ed è facile – lo argomenta con chiarezza Ceccanti nella introduzione – e per certi aspetti incredibile l’analogia con l’attuale conflitto messo in atto da Vladimir Putin ai danni dell’Ucraina e dell’ordine mondiale che, pur senza cadere in banali richiami ai famosi corsi e ricorsi, certamente ripropone l’esatto dilemma dinanzi al quale si trovò il filosofo cattolico: quale strada imboccare per evitare da una parte la logica bellicista e dall’altro un pacifismo imbelle e, diremmo con linguaggio gramsciano, subalterno?

Innanzi tutto bisogna essere chiari: «La parola pace significa oggi, per la maggior parte degli uomini, assenza di guerra armata; Monaco ha salvato la pace significa: i fucili non hanno sparato», scrive Mounier per dire che la pace non è mera assenza di guerra, ma un ordine nuovo (ci si passi una seconda citazione di Gramsci) fondato – ecco il senso del personalismo mouneriano – sulla rifondazione della persona «vista essenzialmente attraverso l’impegno volto alla trasformazione della società, al superamento di quello che, con espressione divenuta famosa, aveva chiamato il disordine stabilito, all’instaurazione in Europa di una pace fondata sulla giustizia», scrive Galeazzi nella ricca introduzione. Ecco, nell’indissolubilità del nesso filosofico (persona) con quello storico-politico (pace fondata sulla giustizia) sta forse l’essenza del messaggio di Mounier.

Tutto questo implica una lotta: del cristiano con se stesso – qui si sente un richiamo pascaliano – e del cristiano nel mondo, una lotta che diremmo aperta perché inedita, fuori dagli schemi consolidati e fallimentari del liberalismo classico e del marxismo. Lotta nel senso di lotta per la giustizia, cioè per il diritto: «Non esiste diritto – scrive Mounier – che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza. Le democrazie liberali sono nate come le dinastie ereditarie: con una presa di potere. Il diritto sindacale non è derivato dallo zelo dei giuristi né dalla buona volontà dei privilegiati, come pure l’affrancamento della borghesia nel XVIII secolo: sono tutti stati determinati dalla pressione di una forza… La forza è all’origine e non può essere eliminata per tutto il cammino percorso dal diritto: perché il diritto, con la sua sola affermazione, provoca la forza e deve poi da questa proteggere la sua libertà di passaggio».

E lotta significa anche, o può significare, resistenza (che ci pare il senso profondo della guerra giusta). C’è insomma in Mounier una tensione permanente, se vogliamo drammatica, che è anche la tensione che scaturisce dalla crisi di una lunghissima epoca storica («Assistiamo al crollo di una civiltà prodottasi verso la fine del Medioevo, consolidata e nello stesso tempo minata dall’epoca industriale, capitalista nelle sue strutture, liberale nella sua ideologia, borghese nella sua etica») e si proietta alla ricerca di una nuova antropologia né hobbesiana né kantiana, come ha notato Giorgio Tonini (che ricordiamo giovanissimo seguace del personalismo mouneriano) in un colto articolo (si può leggere qui).

Mounier spiega chiaramente: «L’uomo è lupo per l’uomo: ogni tirannia professa questo pessimismo di fondo in merito alla natura umana. Tale pessimismo non è cattolico. Per il cattolicesimo, il peccato originale ha sottratto all’uomo un regime di grazia sovrabbondante e, con questo sradicamento, ha ferito, ha scosso nel profondo una natura che era organicamente inserita in questa vita di grazia. Ma non l’ha né distrutta né corrotta e questa natura, che resta sostanzialmente buona, è a ogni momento, attraverso il consenso a una grazia perennemente offerta, capace di restaurazione». Qui si inserisce il protagonismo dei cristiani: «A quel bellicismo che considera la guerra come una fatalità per sua natura ineluttabile e, di conseguenza, come un organismo politico normale, noi opponiamo dunque il rifiuto dettato della teologia e della speranza cristiane».

La questione è tutt’altro che astratta, ma storica, politica. Di Mounier (scorrettamente da taluni collocato a destra) si ricorda l’impegno contro l’hitlerismo e il collaborazionismo della destra francese e in generale la passività del pacifismo imbelle di Monaco: «Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato».

La quadratura del cerchio è molto difficile, anche oggi. Una strada possibile? La nostra Costituzione (che – azzardiamo – a Emmanuel Mounier sarebbe piaciuta), che è poi il punto di caduta dello scritto di Ceccanti laddove sintetizza mirabilmente due punti mouneriani – né bellicismo né pacifismo imbelle – all’articolo 11: «Lo Stato ripudia la guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli. Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Nel temine «ripudia» c’è l’opposizione al bellicismo; nel «consente alle condizioni parità» la vistosa correzione del pacifismo imbelle. Ecco dunque dove riposa (anche) la forza della nostra Carta: ed ecco perché risalire alle sue fonti più pure non è davvero esercizio inutile o minore.

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