Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno del recupero completo di quanto perso con la pandemia, e il trampolino verso una crescita finalmente non da ultimi della classe. Il Pil sarebbe dovuto tornare al di sopra dei livelli del 2019, e i fondi del Pnrr avrebbero dovuto iniziare a cambiare strutturalmente il Paese, per consentire un’espansione dell’economia più vicina a quella media Ue.
Dopo il nuovo cigno nero che si è affacciato sulla scena, la guerra in Ucraina, buona parte di queste previsioni sono destinate a rimanere sogni.
Le stime sulla riduzione degli incrementi del Pil per quest’anno sono ancora necessariamente provvisorie, e destinate a essere smentite. Tuttavia in base a quelle dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), passeremo da una crescita prevista del 3% a una dell’1,6%. E anche se la crescita fosse stata del 3%, sarebbe comunque meno di quel +4,7% sognato dal Governo nella Nota di Aggiornamento al Def di fine settembre 2021. Il peggioramento è forte, ma il dato più interessante riguarda il fatto che siamo tra i Paesi che soffriranno maggiormente delle ricadute economiche dell’invasione russa e delle misure messe in atto contro l’aggressione di Putin.
Volendo escludere la Russia stessa, che passerà da un’espansione del 2,3% a una recessione del 7,3%, a subire un impatto maggiore saranno i Paesi dell’Asia Centrale, del resto legati a doppio filo a Mosca, l’India, la Germania e il Messico. Per gran parte degli altri, come Francia, Cina, Stati Uniti, le conseguenze saranno più lievi. Pechino crescerà del 4,8% contro il 5,7% pronosticato, Washington del 2,4% contro il 3%. E Argentina, Australia, Arabia Saudita, Medio Oriente, essendo grandi produttori di energia e materie prime, vedranno addirittura un’accelerazione del Pil.
L’Italia fa parte di quel gruppo di Paesi con una crescita inferiore alla media già in partenza, e una riduzione della stessa superiore a quella mondiale. Se questo dato non stupisce nessuno, il secondo, relativo all’impatto della guerra, pone più interrogativi.
Il problema dell’Italia, come della Germania e di molti Paesi dell’Occidente, è che sono vittime della “maledizione” della globalizzazione. È quel fenomeno secondo cui per mantenere il livello di benessere raggiunto dalla società dei consumi e consentire un’abbondanza di beni e servizi a un costo abbordabile, si è sempre più ricorsi all’importazione di materie prime, semilavorati e prodotti finiti da ogni parte del mondo in cui fosse possibile produrli a costo inferiore.
È stato il trionfo dei commerci. E ha portato a una crescita dei redditi e al miglioramento delle condizioni di vita proprio nei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, come ogni cosa bella ha avuto un trade off, un effetto collaterale: l’Occidente ha dovuto affidarsi a fornitori politicamente poco presentabili, stringere accordi con dittatori, autocrati, presidenti “eterni”, clan di ogni tipo.
I dati più eloquenti sono quelli che riguardano l’interscambio dell’Ue con la Cina. Le importazioni sono aumentate, in valore, decisamente più delle esportazioni. Le prime hanno avuto nel 2021 un ulteriore balzo, giungendo alla cifra record di 472 miliardi e 348 milioni, mentre le seconde sono cresciute in modo più regolare, e l’anno scorso si sono fermate a quota 223 miliardi e 380 milioni.
In quasi 20 anni l’incremento degli acquisti dall’estero è stato maggiormente pronunciato proprio presso quei fornitori più distanti, geograficamente, politicamente, culturalmente, dall’Europa, come la Cina, l’India, la Russia.
Dipendiamo sempre più dai tiranni, invece che dagli Stati democratici. Tiranni che sono rimasti tali anche dopo l’intensificazione delle relazioni con l’Occidente. L’illusione era che i maggiori contatti con Europa e Stati Uniti avrebbero portato in questi Paesi anche la democrazia, o qualcosa che le somigliasse, assieme all’influenza culturale, il Mc Donald’s, i film di Hollywood, un po’ come era accaduto in Italia con il Dopoguerra. Era una visione semplicistica e un po’ ingenua. Molte autocrazie si sono addirittura rafforzate grazie alla crescita economica alimentata dagli euro e dai dollari.
Anche dal punto di vista politico-culturale non vi è un automatismo tra il sentire la musica inglese, guardare le serie americane, mangiare hamburger, patatine, o anche gli spaghetti, e il rifiutare l’autoritarismo. Anzi, le maggiori disponibilità finanziarie hanno reso possibile una propaganda più moderna e sofisticata.
Oggi la globalizzazione, al contrario di quanto dicono i vari Fusaro, invece dell’esportazione dei valori occidentali, comporta soprattutto l’accettazione delle autocrazie e la dipendenza da esse da parte di Ue e Stati Uniti.
Finché una non passa il segno in modo così violento e plateale come in Ucraina. Ma anche in questo caso qual è la reazione? Rivolgersi necessariamente ad altri regimi, ad altre democrazie “imperfette”, per sostituire le forniture russe. L’Algeria, il Qatar, l’Azerbaijan, dove Ilham Aliyev, erede del clan che governa il Paese dal 1991, ha “vinto” le ennesime elezioni presidenziali con l’86% nell’ultima tornata. Proprio lui ha incontrato Luigi Di Maio nei giorni scorsi, nel tentativo di trovare qualcuno che ci vendesse più gas.
E se in Algeria un domani prendesse il potere l’Isis o i suoi epigoni? Se gli azeri decidessero di portare il conflitto con gli armeni a maggiori livelli di crudezza? E se la Cina invadesse Taiwan o altri Paesi? Non si tratta, infatti, solo dell’energia. Siamo dipendenti anche e soprattutto dai prodotti, in particolare nel caso di Pechino. Con l’aumento dell’interscambio è diventata ancora più schiacciante la prevalenza di questi tra le importazioni dalla Cina. Sempre più importanza hanno assunto macchinari e mezzi di trasporto, infatti.
La globalizzazione è sbagliata, dunque? Avevano ragione i no global? No, soprattutto non dal punto di vista economico. Ma dopo 30 anni di apertura dei mercati si deve essere ben consapevoli di questo paradosso. Che «dove passano le merci non passano gli eserciti» rimane in gran parte vero. Non ci sono state guerre tra Cina e Occidente, e molto difficilmente ce ne saranno, ma ciò non toglie che le armi possano rimbombare localmente, magari finanziate proprio dai commerci.
Quanto saremmo disposti a una reazione dura, anche solo dal punto di vista economico, se a fare come la Russia fossero più Paesi, anche più potenti? Possiamo cercare di procurare il coraggio necessario almeno per ridurre il nostro grado di dipendenza? Ci vorranno investimenti costosi, ci saranno decisioni impopolari nei confronti dell’opinione pubblica da prendere. La speranza è che i leader occidentali siano orgogliosi, che rifiutando l’umiliazione di calare la testa di fronte ai tiranni trovino il coraggio di fare questi passi.