Sono passati ormai più di due anni dai primi lockdown generalizzati, dalle prime giornate tutte simili tra loro, da quando ci siamo ritrovati a dover ridisegnare abitudini, spazi, quotidianità.
Il mondo del lavoro non è rimasto escluso da questa trasformazione, anzi: per molti, il lavoro si è svolto per diverso tempo esclusivamente da remoto, per cui, spesso generalizzando o semplificando, è stato utilizzato il termine “smartworking”. Ben presto si è capito che questo cambiamento sarebbe rimasto, sarebbe sopravvissuto ai lockdown, alle restrizioni, perfino alla pandemia.
In un mondo del lavoro che si è rimodellato su nuove direttrici e si è abituato alla dimensione da remoto su larga scala, per molti giovani iniziare a lavorare può significare, di fatto, conoscere solo questa modalità. Niente ufficio, niente scrivania, niente colleghi intorno.
Non è un cambiamento da poco. Il Wall Street Journal lo raccontava in un lungo articolo che parla di senso di smarrimento, solitudine e ansia che questo può generare. «Lavorare sempre da casa può essere un problema per chiunque, ma gli esperti ritengono che queste sensazioni siano più marcate nelle giovani generazioni, che non hanno esperienze precedenti», spiegava il giornale economico americano.
Quello della Generazione Z, o comunque di chi si affaccia al mondo del lavoro in questi anni, è un tema delicato perché difficilmente può ritrovare nel passato dei modelli – di comportamento e non solo – da seguire. Sono sempre di più, infatti, i giovani che si sono laureati durante la pandemia o hanno trovato lavoro proprio quando gli uffici hanno iniziato a chiudere. E molti di loro pensano che non lavoreranno mai in ufficio, poiché il lavoro a distanza è diventato l’impostazione predefinita di molte aziende.
«Sono casi di studio molto recenti, quindi ancora poco approfonditi, ma di sicuro sono i temi più caldi del momento», dice Giovanna Fullin, sociologa del lavoro dell’Università Milano Bicocca. Una delle prime criticità da analizzare, spiega, è il rischio di marginalizzazione: «Dobbiamo distinguere tra realtà lavorative fatte esclusivamente di lavoro da remoto, dove non esiste un luogo fisico in cui incontrare i colleghi, e realtà in cui c’è una struttura, ci sono uffici e molti lavoratori riuniti, più alcuni da remoto».
C’è infatti una evidenza scientifica – dimostrata per contrasto – che emerge da una ricerca della sociologa Fullin: nel primo lockdown, quando improvvisamente tutti si ritrovarono a lavorare da remoto, molti lavoratori già inseriti in piani di smartworking costante si sono sentiti più integrati, o meno marginalizzati.
Nel caso dei giovani che devono inserirsi in un nuovo ufficio per la prima volta, può essere difficile costruirsi una rete di contatti e interazioni più o meno amichevoli con i colleghi, stando sempre e solo dietro una webcam.
«In quel caso manca del tutto quell’aspetto legato alle informazioni che si possono cogliere in tutti i momenti informali, ad esempio durante la coda per il bagno, prendendo il caffè alla macchinetta, o nella pausa sigaretta: momenti cruciali per capire come si sta in quel posto di lavoro. Quindi sono ancora più determinanti quando si tratta di un giovane alla prima esperienza», spiega Fullin.
Senza un feedback coerente e immediato, qualcuno potrebbe avere difficoltà a capire se il proprio capo o collega ha avuto una reazione positiva o negativa, se c’è sintonia o meno, se il lavoro svolto è davvero buono o anche solo accettabile.
«C’è poi ovviamente tutto ciò che riguarda il linguaggio non verbale – aggiunge Fullin – che è difficile da cogliere in videoconferenza, ma che per chi è alle prime esperienze può avere grande peso».
Come salvaguardare il valore delle relazioni?
Ma il lavoro non è fatto solo di risultati, efficienza nella produzione e feedback positivi o negativi al termine di un progetto. Il lavoro serve anche a creare una rete di relazioni che vanno oltre l’ufficio o qualunque sia il luogo di lavoro. In molti ambienti, si formano rapporti di amicizia, legami che fanno parte della vita di una persona, sono importanti ben oltre la dimensione lavorativa. E ovviamente stare sempre in smartworking è limitante in questo senso.
«Non è un caso – dice Fullin – che in molte città siano aumentati gli spazi di coworking, dove si può creare un contesto di lavoro interessante e stimolante, in grado di controbilanciare il senso di isolamento. In questo caso un giovane che non conosce il mondo del lavoro potrà cogliere dei segnali da persone che magari si muovono in contesti diversi, ma si tratta comunque di avere intorno delle persone che lavorano».
Ovviamente, per i giovani alle prime armi, le difficoltà di doversi relazionare per la prima volta con dei colleghi si sommano alle criticità generali di un sistema di lavoro da remoto perenne. Se ne parla da tempo ormai. La porosità tra tempo di lavoro e tempo di vita è l’elemento macroscopico e più intuitivo da considerare: a volte non c’è una separazione così netta. «Questo fa sì che il tempo del lavoro si sovrapponga al tempo libero, quindi al sabato e alla domenica o che si prolunghi alla sera», dice Fullin, richiamando a quel diritto alla disconnessione che in tutta Europa è ancora poco regolamentato.
Poi, ovviamente, ci sono anche gli aspetti positivi, che non possono essere cancellati da problemi e criticità. Lo smartworking permette di iniziare un percorso lavorativo senza doversi spostare, quindi per esempio di risparmiare sui costi dell’affitto, dei viaggi, offre magari la possibilità di sperimentare lavori che non si sarebbero accettati se fosse stata obbligatoria la presenza fisica.
«E per chi lavora per obiettivi e non con la rigidità degli orari – conclude la sociologa Fullin – c’è la possibilità di scegliere come muoversi, come dividersi gli impegni e crearsi nuove libertà, che sono il vero miglioramento portato dallo smartworking massiccio di questi due anni. È il motivo per cui tantissime persone stanno chiedendo la possibilità di mantenere il lavoro da remoto almeno qualche giorno alla settimana».