Ibridazione totale ma non equa
Ciò di cui stiamo ponendo le basi è dunque una condizione di ibridazione totale delle nostre vite. Al di là delle intenzioni dichiarate – vere o presunte – non di certo del nostro lavoro. Se da un lato le case saranno destinate ad assumere i tratti, presto o tardi, di uffici permanenti, dall’altro dubito, e auspico sinceramente che non avvenga, che gli uffici si possano trasformare in case «su richiesta».
Quando si parla di hybrid workplace si allude semplicemente, e quasi esclusivamente, alla trasformazione della nostra casa in uno spazio adatto a ospitare il lavoro e a consentirne lo svolgimento in modo efficace. Ma certamente non si tratta di un processo di condizionamento bidirezionale.
A dispetto di una crescente insofferenza verso certe concezioni del lavoro – come reso evidente dal fenomeno della cosiddetta Great Resignation, secondo la definizione di Anthony Klotz – e di una nuova consapevolezza sulla caducità della vita – come affermato dai principi della Yolo Economy – ciò a cui rischiamo di andare incontro è una insostenibile mescolanza di spazi e livelli, sempre più a favore del lavoro e sempre più a discapito delle nostre vite.
Un nuovo e pericoloso concetto del tempo
La cifra di tutto è un nuovo concetto di tempo. Del nostro tempo.
Se da anni ormai ci siamo abituati a vivere in un eterno black friday, in cui tutto è a portata di click, stiamo tuttavia correndo lo stesso rischio anche in tema di lavoro. La novità più importante di questi tempi è proprio il modo in cui pensiamo al tempo.
Il processo di ibridazione delle nostre vite è già avvenuto, e forse non ci siamo ancora resi conto pienamente di quanto questo influenzi la nostra esperienza di esistere. Credo che, in qualche modo, dovremmo oggi trovare la capacità di fare quello che si fa normalmente, quando il digitale entra nei processi aziendali: «unbundling» e «rebundling», ovvero scomposizione e ricomposizione, secondo nuove architetture e nuovi paradigmi, creando un nuovo ordine che permetta di separare il più possibile i livelli e gli spazi, favorendone l’organizzazione e la gestione.
Personalmente non credo che il futuro del lavoro debba essere ibrido. Credo, al contrario, che si debba lavorare perché possa essere armonioso, ovvero armonico e ben proporzionato nelle sue parti.
Come deve essere vissuto allora il tempo e lo spazio nello smart working? Come può l’uomo ripensare un rapporto armonioso con il proprio tempo e con il proprio spazio, in una modalità di lavoro rinnovata? È necessario fare un update, post-pandemico e post-ibridazione, del concetto di lavoro flessibile?
Il lavoro ibrido, come abbiamo visto, rimette la tecnologia al centro, e non più l’equilibrio e l’autonomia dell’uomo, come invece, almeno nelle intenzioni era l’obiettivo (o almeno la mia interpretazione) dello smart working. Lo shift concettuale da smart working a lavoro ibrido credo sia una chiara manifestazione di questa dinamica.
Perciò, almeno secondo la mia sensibilità, il vero tema di oggi è la necessità di un ridimensionamento del rapporto tra essere umano e tecnologia, perché il primo non diventi, nella dimensione ibrida, un mezzo funzionale allo sviluppo, alla sperimentazione e al perfezionamento della seconda. Consapevole che possa sembrare una visione distopica, credo che dobbiamo avere il coraggio e la lungimiranza di comprendere effettivamente quanto, come umani, possiamo essere mezzi o possiamo essere fini, e dove sia il limite tra queste due dimensioni esistenziali. Questo, oggi, è uno dei temi su cui dovremmo riflettere.
da “Ibridomania. Dagli eccessi del lavoro ibrido all’importanza del ritmo”, di David Bevilacqua, Guerini Next, 2022, pagine 176, euro 22