GreenwashingL’Europa deve rivedere il metodo di etichettatura degli indumenti?

«I consumatori sono bombardati da messaggi che rivendicano credenziali green, non c’è ad oggi uno strumento basato sull'evidenza scientifica per verificare la maggior parte di queste affermazioni», spiega Dalena White, segretario generale dell’International Wool Textile Organisation

Quando su un’etichetta leggiamo “Questo indumento è stato prodotto responsabilmente” oppure “Collezione green” in sostanza non significa nulla. Evitare questo tipo oltremodo fumoso di descrizioni è uno degli obiettivi in agenda nella Strategia Europea per il tessile sostenibile e circolare, ma potrebbe non essere sufficiente per informare correttamente i consumatori. Gli elementi da tenere in considerazione per fare un acquisto sono infatti molti e non sempre immediati. Per questo alcuni brand e organizzazioni internazionali si sono uniti nello sforzo collettivo di realizzare una campagna in favore della corretta etichettatura dei capi che prende il nome, decisamente eloquente, di Make the Label Count. Il linguaggio della sostenibilità oggi è infatti troppo frastagliato e incoerente:  questo in parte perché non esiste un linguaggio comune, ma anche perché i requisiti di etichettatura sono incompleti o, è il caso di dirlo, di manica larga, quando non fuorvianti. «La sostenibilità è diventata un modello di business redditizio e uno strumento di marketing e i marchi tessili si stanno affrettando a sfruttare questo punto di vista nelle loro ultime campagne» spiega Dalena White, MTLC Campaign Spokesperson e segretario generale dell’International Wool Textile Organisation (IWTO). 

«I consumatori sono bombardati da messaggi che rivendicano credenziali green, non c’è ad oggi uno strumento basato sull’evidenza scientifica per verificare la maggior parte di queste affermazioni. Prendiamo ad esempio i tessuti derivanti dal riciclo di bottiglie PET: vengono pubblicizzati come un’alternativa ecologica alle fibre naturali, ma la verità è che questi tessuti perdono fibre microplastiche ad ogni lavaggio e in più tolgono risorse al processo di riciclo del PET, che è un tipo di economia circolare perché si ricicla una materiale nello stesso, per portarlo in un’economia lineare (i tessuti risultanti non possono essere nuovamente riciclati). Nonostante questo la narrazione di molti brand è che questo sia un processo virtuoso».

L’attuale metodo di etichettatura prende in considerazione i criteri fissati dal PEF (Product Environmental Footprint), indicatore introdotto dalla Commissione Europea nell’aprile del 2013, figlio di un’epoca in cui ci si concentrava soprattutto sull’impronta carbonica dei prodotti. L’obiettivo era infatti quello di sviluppare metodi di studio validi per ottenere un sistema di misurazione e convalida delle dichiarazioni ambientali che determinasse la parità di condizioni per la concorrenza tra prodotti realizzati in Stati membri diversi e, allo stesso tempo, fissasse dei requisiti di base imprescindibili.

Quindi cosa manca all’etichettatura PEF? «Il sistema Product Environmental Footprint (PEF), valuta l’impatto ambientale di un prodotto e fornisce ai consumatori informazioni su questo aspetto, tuttavia, è incompleto. Ad esempio non confronta correttamente le emissioni necessarie per la costruzione della materia prima tessile: naturale o sintetica. Il sistema attuale non tiene conto delle differenze fondamentali tra le due risorse: nello specifico, l’impatto ambientale della formazione di petrolio greggio – che è la materia prima per la produzione di fibre sintetiche – non figura nel metodo PET, mentre figurano gli impatti della formazione di fibre naturali come la lana, dove viene contata la fase di allevamento che produce un elevato quantitativo di emissioni, utilizza molto suolo e molta acqua. Questo penalizza molto le fibre naturali, anche se sono più ecologiche. Ancora: l’attuale metodologia PEF non misura l’inquinamento da microplastiche causato dai tessuti. L’omissione delle microplastiche come indicatore assegna un valore di impatto zero che rischia di guidare involontariamente i consumatori verso prodotti composti in larga parte da fibre sintetiche. La transizione verso un’economia circolare è una pietra angolare fondamentale della strategia dell’UE, ma nessuno dei 16 indicatori PEF misura direttamente questo aspetto: fibre grezze e biodegradabili, come le le fibre naturali, sono intrinsecamente circolari mentre i prodotti realizzati con materiali fossili (cioè le fibre sintetiche) non sono né rinnovabili e né biodegradabili. Per essere coerente con la strategia dell’UE la metodologia PET dovrebbe tenere conto della circolarità e degli impatti benefici delle fibre naturali, come la durabilità e la riciclabilità e quelli dannosi delle fibre sintetiche». 

L’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) ha per altro ampiamente riconosciuto che le fibre naturali, come la lana, hanno una migliore durata e un impatto minore sia nella fase di uso che in quella di fine vita del prodotto rispetto a quelle sintetiche. Gli indumenti realizzati con la lana resistono alle pieghe, ma anche agli odori e necessitano di essere lavati meno spesso, risparmiando così acqua, energia e detergenti. Quando si parla di fibre naturali si parla di fibre per la maggior parte rinnovabili che si biodegradano a fine vita restituendo le loro sostanze nutritive al terreno. Le fibre sintetiche necessitano invece dell’estrazione di combustibile e non si smaltiscono. La coltivazione di fibre naturali inoltre costituisce un reddito per molte comunità rurali, soprattutto in zone del povere o remote del mondo. Il cotone rappresenta il 50% del reddito da esportazione del Benin, le vendite di alpaca sono cruciali per 46 delle province più povere del Perù, dove il 35,3% della popolazione nel 2018 aveva un reddito insufficiente per soddisfare i propri bisogni di base. 

Ecco che molti player del settore delle fibre naturali si sono riuniti per far sentire la loro voce e provare ad arginare quella che di fatto è una metodologia che di fatto li svantaggia, ma porta a un disequilibrio tra tipologie di fibre che non sono paragonabili in termini di impatto ambientale. 

La campagna Make The Label Count è stata lanciata da una coalizione di internazionale di produttori e singoli brand di fibre naturali, con sede in tutto il mondo, perché si concentra in particolar modo sulla metodologia utilizzata in Europa per l’etichettatura? «L’UE sta assumendo un ruolo di leadership globale nella sostenibilità e nella regolamentazione, ci sarà un effetto a catena. L’obiettivo dei membri della coalizione è riuscire a fare la differenza offrendo supporto alla Commissione Europea e ai suoi membri, perché crediamo che sia giusto per il pianeta».

Come dovrebbe essere costruita quindi un’etichetta in modo che sia esaustiva e realmente anti-greenwashing? 

La metodologia alla base dell’etichetta dovrebbe tenere conto di fattori chiave che influenzano la vita dei prodotti, come l’uso che se ne fa. La formulazione oltre che chiara, non dovrebbe essere fuorviante, ad esempio: definire un tessuto “sostenibile” perché è realizzato a partire da bottiglie di PET riciclate, semplicemente non è vero. Dovrebbero poi essere fornite informazioni chiare sull’impatto completo di un indumento, comprese le pratiche di lavoro e gli impatti socio-economici dei tessuti utilizzati per realizzare quegli indumenti. Gli articoli tessili dovrebbero essere forniti con le avvertenze, come quelle che si trovano sui contenitori di sigarette: dove si specifica se contengono fibre prodotte da petrolio greggio e se l’intera catena di approvvigionamento sia stata o meno valutata. Questo consentirebbe ai consumatori di decidere se intendono indossare quei capi e se siano disposti a finanziare con i loro guadagni le aziende che li producono.

 

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