«Sembra che la Russia non sia in grado di pagare il suo debito in dollari, ma sia costretta a farlo in rubli. E questo porta quasi a un default. È la dimostrazione concreta che le nostre sanzioni sono vere ed efficaci». Johannes Hahn commissario Ue al Bilancio, parlando con un gruppo di media europei tra cui La Stampa, difende le misure restrittive adottate dall’Unione per colpire Mosca e apre alla possibilità di estenderle al petrolio. Ma al contrario di quanto dice il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, vede più difficile un embargo sul gas.
«L’importante è mantenere l’unità tra gli Stati membri», dice. Il quinto pacchetto di sanzioni, che include solo lo stop al carbone, «sta per essere finalizzato e al momento io non vedo la possibilità di includere il gas perché è bloccata da molti governi. Credo invece che il petrolio sia possibile semplicemente perché viene consegnato in un modo diverso rispetto al gas, il che rende più flessibili le forniture: il petrolio arriva principalmente via nave, mentre il gas tramite gasdotti».
Anche l’Europa, intanto, sta pagando le conseguenze economiche del conflitto, ammette. «Dobbiamo gestire la crisi legata al Covid, quella energetica, l’accoglienza dei rifugiati, la crisi dei prodotti alimentari, soprattutto per i Paesi vicini. E ancora non sappiamo quanti soldi serviranno per la ricostruzione dell’Ucraina. Il bilancio dell’Unione europea non può soddisfare tutte le necessità di questa crisi, vale poco più dell’1% del Pil. Per essere efficaci servono nuove iniziative comuni, bisogna mettere insieme qualcosa di nuovo. Anche se è ancora difficile quantificare le reali necessità».
Un nuovo piano sulla scia del Next Generation Eu? «No, non sto parlando di questo», risponde Hahn. «Bisogna distinguere tra ciò che serve agli Stati membri e quello di cui ha bisogno l’Ucraina. Per Kiev penso a un nuovo Piano Marshall. Quello del secondo dopoguerra era composto essenzialmente da prestiti, legati a anche al ristabilimento della democrazia in Europa. Noi dobbiamo aiutare l’Ucraina a riprendersi velocemente, non in 10-15 anni, e questo potrebbe portare a un più rapido avvicinamento all’Unione europea. Ma serve uno sforzo globale, non solo nostro».
Per aiutare gli Stati membri, invece, «l’attuale Next Generation Eu è ancora sufficiente. Guardiamo ai prestiti: su 380 miliardi, solo 170 sono stati richiesti. Le risorse non mancano». E per i Paesi come l’Italia che hanno esaurito l’intera fetta di prestiti, sarà possibile una redistribuzione delle quote. «In principio ogni Stato ha il diritto di chiedere prestiti fino al 6,8% del proprio Pil», dice Hahn. «Se tutti lo facessero servirebbero mille miliardi, mentre noi ne abbiamo a disposizione solo 380. Credo comunque che saranno sufficienti perché molti Paesi, come la Germania, hanno detto che non li chiederanno. Però sono certo che entro il 2023 altri lo faranno perché le nostre condizioni di mercato sono molto favorevoli».
In più, «gli Stati possono riprogrammare i fondi di coesione, per esempio per l’accoglienza dei rifugiati». Per il Next Generation Eu, «per ora abbiamo raccolto 100 miliardi su 800 visto che gli Stati stanno iniziando ora a chiedere i pagamenti. A chi ha già iniziato a chiedere un Next Generation EU 2.0 dico: bisogna prima focalizzarsi sull’implementazione del piano corrente. Molti non ameranno ciò che sto dicendo, ma per il momento ci sono abbastanza soldi e bisogna pensare ad assorbire quelli che sono già sul tavolo. Ogni nuova idea deve essere accettata all’unanimità e per arrivarci è necessario vedere gli effetti del suo valore aggiunto per ogni Stato membro. Alcuni Paesi erano riluttanti sul Next Generation, poi sono stati convinti, ma ora non sono pronti ad accettarne un altro. Per arrivarci bisogna dimostrare i benefici, che devono essere visibili. Non solo in termini di ripresa, ma anche in termini di resilienza».
Il commissario Hahn si occupa anche del dossier sullo Stato di diritto, dopo l’annuncio dell’applicazione della condizionalità all’Ungheria legata alla corruzione. «La notifica ufficiale verrà data nell’ultima settimana di aprile. Dopodiché inizierà una procedura che può richiedere tra sei e nove mesi. Se le risposte non saranno soddisfacenti, potremo proporre misure al Consiglio che deve adottarle a maggioranza qualificata». Ma perché all’Ungheria sì e alla Polonia no? «Per Varsavia abbiamo evidenziato problemi legati all’indipendenza della giustizia, ma per ora non abbiamo prove di un legame tra questo e l’uso dei fondi del bilancio Ue»